L’obbiettivo di questo articolo è quello di portare avanti una riflessione rispetto a un tema a me molto caro, l’eutanasia. Quello che ho intenzione di fare è capire, evidenziare e confutare la narrazione che costantemente viene portata avanti dalla componente cattolica e reazionaria del paese, che impedisce ed esecra, in virtù di un dogma morale, quello che sarebbe un grande passo in avanti per la civiltà.
Mai come in questi ultimi anni il tema dell’eutanasia ha avuto una così grande attenzione mediatica e sociale. Si pensi che da poco, per la prima volta nella storia, il Servizio Sanitario Nazionale ha interamente sostenuto le spese di un suicidio assistito dando vita ad un precedente non indifferente. Cruciale in questo processo di accentramento nel dibattito è stata sicuramente la rivelazione al grande pubblico di una serie di casi che, per usare un termine medico, verrebbero definiti ‘’compassionevoli’’, con particolare riferimento al caso ‘’DJ Fabo’’ portato al grande schermo da ‘’le Iene’’ che mostrano una situazione ai limiti della realtà. La vita di un uomo ( o meglio la non-vita ) spezzata da un incidente in auto e ridotta a un letto e quattro mura di una stanza, impossibilitato dall’osservare le crepe presenti sul soffitto per via della cecità causatagli dal trauma. Ogni parte del suo corpo è atrofizzata, le braccia e le gambe non rispondono agli stimoli nervosi così come la respirazione, controllata da un sistema di ventilazione meccanica. Una sofferenza inaudita che ha trovato la sua dignitosa fine in Svizzera con l’aiuto dell’associazione Luca Coscioni e del tesoriere Marco Cappato che da anni segue e accompagna pazienti in condizioni simili alla pratica dell’eutanasia. Ricordiamoci, e questo è fondamentale ai fini dello sviluppo del testo, che la pratica, nei paesi in cui è consentita, è regolata da delle specifiche leggi che circoscrivono in modo specifico i casi in cui un paziente può ricorrere all’eutanasia. La scelta deve essere autonoma, non indotta o influenzata dal personale medico o dalla famiglia ed è, come detto, concessa attraverso un’attenta analisi medica capace di constatare l’irreversibilità della malattia. In generale possiamo dunque dire che si tratta di situazioni che spesso non viviamo da un punto di vista individuale ma che in un qualche modo più o meno indiretto ci riguardano socialmente poiché, se ci guardiamo intorno, rappresentano una realtà con la quale, volenti o nolenti, dobbiamo fare i conti in quanto cittadini consapevoli e attivi nella vita del nostro paese. Il punto focale sta proprio qui, chiudere gli occhi e voltarsi dall’altra parte o osservare il fenomeno con la più sincera onestà intellettuale cercando di analizzarlo senza piegare la realtà all’ideologia, ma mettere da parte quest’ultima per visualizzare la reale concretezza delle cose.
Il tema che si è andato a imprimere nelle menti di chi ha seguito tali avvenimenti rappresenta di fatto un dilemma morale per nulla indifferente ma che anzi poggia le proprie basi addirittura nella civiltà antica. Una situazione ai limiti del paradosso, un bivio con il quale le persone sono state costrette a scontrasi e che in un certo qual modo capovolge inesorabilmente il dogma che una società cattolica e teistica come la nostra ha fatto proprio, il concetto di sacralità della vita. Da un certo punto di vista, per citare Jung, si può quasi parlare di archetipo, cioè di una figura che appartiene all’inconscio collettivo e come tale tutti quanti ci portiamo dietro. Tale concetto, è stato ed è tutt’ora, espressione della morale cattolica secondo la quale essendo la vita un dono di Dio e per definizione ‘’sacra’’, interromperne il flusso in modo totalmente arbitrario rappresenterebbe un affronto nei confronti del Divino, un alterazione volontaria del normale corso degli eventi che andrebbe ad impedire di fatto la realizzazione di un percorso già predefinito. È chiaro che tale affermazione ha un valore di natura dogmatica e non assiomatica, come alcuni credono. È infatti importante distinguere i due termini per non cadere in errore. L’assioma è un’affermazione vera per definizione che di fatto non ha bisogno di una dimostrazione ma è evidente di per se. Il dogma ha invece una componente fideistica e non presenta una dimostrazione empirica, piuttosto assume la connotazione di un assolutismo morale, che è stato perfettamente recepito e fatto proprio da gran parte della popolazione (torniamo al concetto di archetipo). Ora, nel dibattito politico, diversi attivisti pro-life o integralisti cattolici, sono ben attenti dal non citare mai o molto poco questo aspetto che ha a che fare con la religiosità e con la fede, e questo ha un significato molto preciso. Sanno infatti che le loro argomentazioni si costruiscono sulla base di un dogma, vale a dire che la loro premessa iniziale, cioè che la vita rappresenta un dono di Dio, non è in alcun modo dimostrabile, non è logicamente evidente, è corretta per chi ci crede ma non per chi non lo fa. Quello che cercano di fare è costruire una serie di ragionamenti a partire da una premessa indimostrabile e irrazionale, è come se costruissi un bellissimo castello ma lo facessi su un terreno non stabile. Un ragionamento può infatti seguire delle logiche che possono essere corrette o addirittura incontrovertibili, ma è nullo se si parte da delle premesse false o, perlomeno, non dimostrabili.
Sulla base di quanto detto, è possibile distinguere due categorie di interlocutori; quelli in buonafede e quelli in malafede. I primi, che sono spesso rappresentati da un substrato culturale abbastanza bigotto e fortemente reazionario, sono coloro che hanno interiorizzato in modo talmente intimo e personale il dogma che ci costruiscono tranquillamente dei ragionamenti sopra, non rendendosi però conto dell’errore che portano avanti. I secondi invece (citati prima), che da un certo punto di vista sono i più pericolosi, fanno ben attenzione ad escludere per quanto possibile dal dibattito la componente fidestico-religiosa (sebbene sia proprio quella fargli partorire l’idea che l’eutanasia rappresenti un problema), proprio perché sanno che sarebbe intellettualmente disonesto e soprattutto poco producente ai fini dell’argomentazione e dell’acquisizione di consensi. Quello che fanno è un gesto più subdolo, ossia quello di separare la situazione dal contesto. Si parla di fatto di manipolare la realtà e le informazioni che ci arrivano, in questo modo viene dato un valore pragmatico e reale alla loro argomentazione. Per spiegare meglio tale argomentazione è possibile notare come negli articoli o nelle dichiarazioni contro tale pratica si possono trovare termini quali ‘’omicidio di stato’’, ‘’cultura della morte’’, ‘’omicidio legale’’, che sebbene di per se non abbiano alcun tipo di significato, lo assumono se ascoltati e captati dal giusto orecchio, e sono capaci di generare un senso di imminente pericolo, un’esigenza incontrastabile di agire per salvare un mondo in cui il valore della vita sta via via venendo perso e conquistato dalla tanto temuta “cultura della morte”. Quello che si vuole raffigurare è un attacco nei confronti della civiltà, una specie di complotto volto a eliminare poveri individui colpevoli di pesare sulle spalle della famiglia e della società, la sofferenza e la volontà del malato sono elementi che appositamente non vengono citati perché non utili alla narrazione. Traendo spunto da un intervento di Marco Cappato, nessuno dirà mai che Fabo avrebbe dovuto continuare a vivere sotto atroci sofferenze, piuttosto la dichiarazione tipica sarà ‘’io sono per la vita’’ e notiamo come questo è uno dei casi prima citati, in cui il contesto viene eluso e l’ideologia fa da padrona. Ecco come spesso la strumentalizzazione diventa un’arma essenziale, tragiche e complesse situazioni come quelle di Alfie Evans o Archie Battersbbe, diventano emblema di una certa parte politica che porta avanti una determinata retorica. La narrazione diventa fuorviante, e semplificazioni e qualunquismi diventano elementi essenziali per portarla avanti.
Ma da un punto di vista prettamente umano mi chiedo; chi siamo noi per impedire a un paziente che presenta una patologia irreversibile di poter porre fine in maniera dignitosa alla propria vita? Lo si può davvero impedire per via di una congettura personale? Ha davvero senso anteporre un ideale nel momento in cui quest’ultimo induce di fatto a una immane sofferenza e limita in modo sostanziale la libera scelta? Al contrario, dovrebbero essere i cattolici, spinti dal sentimento di compassione verso il prossimo, a promuovere tale pratica nei casi in cui è necessaria. Ma come diceva Pasolini in uno storico intervento al Corriere della sera nel 1973 «al Vaticano è molto tempo che i cattolici si sono dimenticati di essere cristiani».
Il cambiamento fa paura e non sono il primo a dirlo. Rappresenta un affronto nei confronti di certe idee ben radicate nella mente di tanti individui, e spesso è molto difficile riuscire a mettersi sotto analisi ed essere capaci di ritrattare le proprie posizioni e rigettare, almeno in parte, ciò che si è creduto vero fino a quel momento. Si tratta di fatto di mettere in discussione le stesse credenze che hanno accompagnato queste persone per tutta la vita. È un po’ il mito della caverna, in cui il prigionieri mostrano una certa resistenza nel trattare le proprie posizioni e considerano reale ciò che vedono. Si tratta insomma di una rivelazione, un velo di Maya che viene via e quando l’ideologia non può più piegarsi sulla realtà ci si scontra contro il marmo.
25 marzo 2024
SULLO STESSO TEMA
M. Tommasi, Una relazione di cura medico-paziente: una relazione tra filosofi
G. Lovison, Bioetica e utilitarismo