Il problema della natura in Nietzsche

 

La definizione della natura in Nietzsche e le contraddizioni che questa comporta nella considerazione a-finalistica e a-sostanziale della stessa.

 

di Riccardo Di Girolamo

 

G. Stubbs, "Un leone attacca un cavallo"
G. Stubbs, "Un leone attacca un cavallo"

 

La natura opera secondo un fine? È forse un grande meccanismo in cui tutto è programmato e prevedibile? Oppure è un regno senza regole, senso e scopo la cui unica proprietà è quella della conservazione? 

 

Nel considerare tali questioni il pensatore di Rocken continuò a subire gli influssi del suo educatore Schopenhauer anche molto tempo dopo la loro separazione intellettuale. Persevera, infatti, un pessimismo di fondo e una considerazione che potremmo definire leopardiana della natura. Questa, infatti, appare talvolta simile a una grande macchina ingannatrice, sebbene siano da rifiutare qualsiasi descrizione meccanicistica e/o finalistica della natura, come ci avverte l’autore ne La Gaia scienza, eppure questa sembra aver creato l’uomo unicamente per prendersi gioco di lui e costringerlo a soffrire. 

 

« Tu [Natura] sei nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali, e di tutte le opere tue; che ora c'insidii ora ci minacci ora ci assalti ora ci pungi ora ci percuoti ora ci laceri, e sempre o ci offendi o ci perseguiti; e che, per costume e per instituto, sei carnefice della tua propria famiglia, de' tuoi figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere. » (Giacomo Leopardi, Dialogo della Natura e di un Islandese)

 

Nel paragrafo 107 Libro 2 della stessa opera, Nietzsche descrive l’arte come supremo metodo d’illusione creato dall’essere umano per non guardare direttamente la verità della natura, sporca, brutale e inadatta all’uomo, che ha invece sviluppato un bisogno estetico, di estetizzare il mondo e la vita. Da qui si arriva alla famosa giustificazione estetica dell’esistenza di cui parlava già ne La nascita della tragedia

 

« [...] che la nostra suprema dignità stia nell’accezione di opere d’arte - poiché solo come fenomeni estetici l’esistenza e il mondo sono eternamente giustificati » (Nietzsche, La nascita della tragedia

 

Laocoonte e i suoi figli
Laocoonte e i suoi figli

 

Il soggetto protagonista al centro, morso dai serpenti, avvinghiato dal dolore eppure dalla bellissima forma ci ricorda proprio la giustificazione estetica dell’esistenza di cui parla Nietzsche

 

Eppure, si continua a seguire un filo schopenhaueriano benché l’autore lo abbia già da tempo ripudiato come insegnante, continua a esserci un radicale pessimismo e quasi “intenzionalizzazione” della natura, la quale sembra operare solo per il male dell’uomo e, quando sembra operare per il suo bene essa non fa altro che produrre inganni che l’uomo è naturalmente predisposto a ricevere (un meccanismo perfetto sembrerebbe!). In altri passi egli sembra però invitare i lettori ad avvicinarsi alla natura e a tornare nel suo reame, cercando di giustificarla esaltandone la spontaneità e l’assoluta mancanza di principio morale. È il senso della terra di cui parla Zarathustra e che dovrebbero possedere gli uomini a venire, un contatto radicale col mondo senza inganni e mediazioni di terzi, umani o divini che siano. Un senso della terra che accetta la morte di Dio e permette all’uomo di ricongiungersi con una sua propria parte essenziale. Ma egli auspica questo in un’ottica positiva e per positiva intendo opposta a quella negativa dell’ultimo uomo. Ma attenzione, i criteri di assoluto bene e male non possono trovarsi nell’autore, dunque è un bene relativo essere un superuomo come è un male relativo essere un ultimo uomo, ciascuno può scegliere il suo destino e trovarvi del bene o del male in esso, dato che gli uomini non sono uguali per natura. 

 

Sembra, dunque, che abbiamo due posizioni contrapposte nei confronti della natura: da un lato un Nietzsche ancora troppo succube di Schopenhauer e delle sue filosofie della menzogna, dell’inganno di Maya e della Natura come ingannatrice; dall’altro un Nietzsche più originale e psicologo che ricongiunge uomo e natura in un matrimonio piuttosto che vederli come contrapposti. Il problema, inoltre, è che l’autore più volte afferma come non si possa personificare la natura, attribuirle un fine o uno scopo, ma se poi si afferma che essa faccia di tutto per ingannare l’uomo e lo stesso concetto di verità sarebbe nato come inganno per sopravvivere (paragrafo 110 Libro terzo), allora si sta attribuendo una chiara intenzionalità alla natura. Ma se essa non può essere personificata e non opera secondo fini, come potrebbe avere delle intenzioni? 

 

Nella titanica lotta fra uomo e natura che appare delineata già ne La nascita della tragedia e ne La Gaia scienza, il mondo naturale sembra operare intelligentemente e finemente per ingannare l’uomo in ogni modo possibile, stando sempre un passo avanti a lui con il fine di conservarlo e farlo soffrire. Ma ingannare e far provare dolore sono dei fini manipolatori che possiamo attribuire a un organismo senziente e molto intelligente, cosa che non ci è permesso fare alla luce delle considerazioni precedenti. Nel paragrafo 109 del Libro terzo egli poi afferma: «Guardiamoci dal pensare che il mondo sia una creatura vivente [...] Guardiamoci dal credere che l’universo sia una macchina! Non v’è dubbio che non è costruito con uno scopo [...] Guardiamoci dal dire che esistono leggi nella Natura. Vi sono solamente necessità: non vi è nessuno che comandi, nessuno che obbedisca, nessuno che trasgredisca». Egli considera ogni personificazione della Natura come un’ombra di Dio e nello stesso passo citato auspica una liberazione da queste ombre e un ricongiungimento dell’uomo con la natura. Qui siamo vicini alla visione del senso della terra espressa nello Zarathustra

 

Nel paragrafo seguente egli tratta dell’origine della conoscenza affermando che «per lunghi lunghissimi periodi di tempo l’umanità non produsse che errori. Alcuni si rivelarono utili, atti a conservare la specie». Qui, di nuovo, ci troviamo di fronte a una natura ingannatrice, dal momento che la conservazione della specie dobbiamo considerarla un’attività assolutamente naturale e che questa conservazione avviene per mezzo di una menzogna. Essa fa produrre degli errori conoscitivi all’uomo affinché esso non veda troppo la verità e dunque si conservi. Questa descrizione della natura è però manipolatoria e continua a pensarla come un organismo sofisticato e intelligente, in assoluta contraddizione con le affermazioni precedenti! Continua: «Fu chiaro che nessuno poteva vivere con essa (la verità), che il nostro organismo era fatto per il contrario». Dire “era fatto per il contrario” equivale a un essere programmato-per, termine che indica chiaramente un fine stabilito da un organismo intenzionale, dunque, ci scontriamo di nuovo con una visione finalistica che però il nostro rifiuta tout court. Il problema è che, nello stesso paragrafo, egli giunge ad affermare, alla luce di sviluppi e riflessioni sul tema della conoscenza, che «anche l’impulso alla verità si è dimostrato una forza conservatrice della vita» il che si scontra apertamente con quanto affermato finora, contro quella concezione ellenico-pessimistica che egli pareva abbracciare fin dal principio della sua opera. 

 

Ne La Nascita della tragedia egli, infatti, prendendo spunto dalla tragedia eschilea del Prometeo incatenato, affermava come la conoscenza fosse, in accordo con il pensiero greco arcaico, un crimine nei confronti degli dèi, un “furto a danno della natura divina”. Scrive infatti: «Ciò cui l’umanità può aver parte di più alto e di migliore, lo raggiunge solo attraverso un crimine, e deve perciò accettarne le conseguenze, ovvero l’intero flusso di dolori e patimenti con cui i celesti offesi perseguitano il genere umano che tende nobilmente all’elevazione». Qui il contrasto è posto fra uomo e divino, ma non è dissimile a quello fra uomo e natura, specie se pensiamo agli dèi olimpici come delle trasfigurazioni della natura e dei suoi elementi. Vi è sempre uno scontro, una lotta per la conoscenza, prima vista come uno sviluppo di errori ora come furto del fuoco agli dèi

 

P.P. Rubens, "Prometeo incatenato"
P.P. Rubens, "Prometeo incatenato"

Anche questo contrassegna l’inguaribile pessimismo del pensatore tedesco ed è egli stesso ad affermarlo poco dopo nella stessa opera: « [...] La visione elevata del peccato attivo in quanto virtù autenticamente prometeica: con ciò è trovato anche il fondamento etico della tragedia pessimistica, come giustificazione del male umano, cioè sia della colpa umana che del dolore che ne scaturisce». Anche in questo scontro titanico uomo-divinità l’essere umano sembra essere schiavo di un'entità a esso superiore che esige la sua obbedienza e la sua ignoranza. Prima la Natura auspicava l’ignoranza per l’uomo affinché esso conservasse la propria esistenza e non vedesse la verità (cosa per cui non era “programmato”) ora gli dèi vogliono che l’uomo rimanga ignorante e loro servo e custodiscono gelosamente il fuoco della conoscenza. Eppure, l’uomo tradisce questo patto, infrange i limiti imposti dal mondo e compie il crimine che lo individualizza in quanto uomo: ruba il fuoco, si appropria di ciò di cui non deve appropriarsi: la conoscenza. Ma questo ci fa pensare che, in fondo, l’uomo sia naturalmente portato a compiere questo crimine, cioè a conoscere ed è proprio nel “naturalmente” che sta il problema! Se è naturale che l’uomo sfidi la natura/gli dèi per conoscere la verità, non è forse “programmato” dalla natura per farlo? Può l’uomo fare qualcosa di non naturale? Non è forse egli un figlio della Natura? Dunque, sembra quasi che la natura volesse concedere questo furto, che questo rientrasse nei suoi piani, ma parlando di volontà e piani parliamo di intenzione e finalità e stiamo dunque personificando la natura, la quale secondo Nietzsche deve essere senza fine, senza leggi, senza progettualità, dunque, verrebbe da pensare, senza volontà. 

 

Ma qui giungiamo al punto più periglioso della questione: la volontà di potenza. Se infatti non possiamo attribuire un’intenzionalità alla natura perché questo ne farebbe un’entità con dei fini precisi, come possiamo parlare di volontà di potenza? Dividiamo la questione: già la volontà di per sé è legata al concetto di intenzionalità e di organismo. Solo gli organismi viventi possono volere qualcosa, essere proiettati-per, essere volti a un qualche fine, tendendo a qualcosa. La volontà, dunque, richiede, un soggetto, l’organismo volente e un oggetto, l’oggetto voluto. Qui l’oggetto voluto è, questo il secondo punto, la potenza. Dunque, non solo la Natura possiede una volontà, ma ha anche un oggetto specifico da assegnare a questa! Essa vuole la potenza, o se non la vuole per sé stessa ha creato nell’uomo e negli organismi questo istinto di base. Allora essa è un essere desiderante che desidera qualcosa, ma questo fa della natura qualcosa di completamente opposto alla definizione di essa come “senza fini, senza leggi”. Qui, la legge e il fine è proprio la volontà di potenza. Non si può parlare di una natura scevra di caratteri meccanicistici e finalistici e al contempo parlare di un essere progettati-per, sia la conservazione, la sopravvivenza o la volontà di potenza, perché dietro ogni progettazione sta un’intenzione e dietro ogni intenzione sta un organismo vivente

 

Potremmo a questo punto dire che la Natura non è un organismo vivente e senziente, ma solo il regno della Necessità e che l’uomo e gli altri esseri abbiano creato l’istinto di conservazione o la volontà di potenza. Ma questo parrebbe assurdo, dal momento che l’uomo e gli altri animali sono esseri organici a cui non è dato poter creare dal nulla; dunque, essi devono aver necessariamente sviluppato queste caratteristiche. Ma se parliamo di “sviluppare” consideriamo un sostrato di cose già esistente che deve essere accresciuto e se quel sostrato è già esistente chi ve l’ha posto se non la natura? Dobbiamo per forza ricondurre tutto ciò che esiste alla natura dal momento che non abbiamo un altro termine osservabile cui far tornare l’esistente. E, allora, se tutto ciò che esiste e che noi sviluppiamo è già fatto dalla natura anche il senso di sopravvivenza lo è, anche la volontà di potenza lo è e dunque dobbiamo riconoscere, a rigor di logica, un finalismo intrinseco nella natura.

 

Se gli esseri viventi sono chiamati a conservarsi questa “chiamata” rientra in un progetto, un “programma” stabilito dalla Natura stessa. Se togliamo il carattere finalistico della natura dobbiamo anche escludere i concetti di sopravvivenza, conservazione e volontà di potenza, che, abbiamo dimostrato, non possono nascere ex nihilo, ma da un sostrato naturale, dunque già preparato dalla Natura e pensare a questa come a un regno folle, senza ripetibilità di eventi, in cui questi sono assurdi e scivolano via da ogni logica. Un mondo psicotico in cui il sole tramonta e risorge cambiando forma o direzione, in cui gli esseri viventi vivono e muoiono a caso, avendo intenzioni senza senso, in cui uno scoiattolo per mangiare una ghianda si metta a sbattere la testa contro l’albero. Sarebbe un mondo assolutamente idiota e privo di senso, un mondo molto lontano da quello che siamo abituati ad osservare, in cui sebbene sia presente una grande violenza e brutalità (almeno secondo la nostra odierna morale) vi sono eventi che si ripetono, somiglianze e gli esseri possiedono la loro intelligenza per sopravvivere, poiché sopravvivenza e intelligenza sono due caratteristiche strettamente connesse fra di loro. 

 

In conclusione, Nietzsche parla spesso di una natura matrigna e ingannatrice, vedendo la conoscenza umana come un furto e uno scacco ai suoi piani, andando a sostanzializzare e personificare qualcosa che egli dice non può essere personificato e finalizzato a uno scopo, ma che abbiamo dimostrato non può essere tale se intende possedere le proprietà della conservazione e della volontà di potenza.

 

19 marzo 2024

 









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