La crisi della verità nell'infosfera

 

L’avvento dell’ infosfera ha generato una trasformazione profonda nella relazione dell’uomo alla verità. Indagare il mutamento in atto è importante per comprendere in che modo si stia evolvendo il nostro rapporto con noi stessi, con gli altri e con il mondo.

 

di Salvatore Grandone

 

René Magritte, La condizione umana, 1933
René Magritte, La condizione umana, 1933

 

Nella storia della civiltà occidentale sono individuabili tre atteggiamenti antropologici nei confronti della verità: la rivelazione, l'adeguamento e la credenza. Intorno alla verità come rivelazione convergono le esperienze che riguardano l’ambito religioso, estetico e, in generale, la dimensione del vissuto che si struttura come un accogliere nel raccoglimento.

La verità come adeguamento è alla base invece del discorso scientifico e dei logoi che mettono in gioco la dimensione fattuale. La riflessione sulla corrispondenza tra linguaggio, pensiero e realtà fa nascere l’argomentazione nelle sue molteplici forme, da quelle più rigorose e complesse a quelle più semplici e quotidiane. La verità come credenza fonda infine il discorso politico, nel senso che è quell’atteggiamento in cui l’impegno e la testimonianza attraverso l’azione sono essenziali.

 

La verità come credenza è mostrata e agita, e, in quanto tale, genera e rompe legami, accorda, distingue, costituisce la società. Questi tre regimi della verità non si escludono a vicenda. Anzi, coesistono e spesso si intrecciano in maniera quasi indistricabile. Ad esempio, per l’uomo di fede all’accoglimento della verità – che sopraggiunge all’inizio come rivelazione –, segue la testimonianza che genera tra gli uomini nuovi legami. Ma questa operazione “politica” fa spesso i conti con altri discorsi religiosi o a-religiosi. La rivelazione è così inserita in un discorso fattuale che argomenta la propria superiorità rispetto ad altri concorrenti. La rivelazione si mette insomma alla prova e fa il suo ingresso nella verità come adeguamento.

 

O ancora, un discorso scientifico può avere la sua origine in un’intuizione che si presenta come una sorta di rivelazione – si parla spesso in questo caso di serendipità. Il discorso fattuale costruito sull’intuizione è in seguito mostrato e agito nella comunità scientifica. Lo scienziato se ne fa portavoce e lo promuove. Con l’avvento dell’infosfera questi tre regimi della verità sembrano entrati profondamente in crisi. Indagare come stanno cambiando è importante, perché la nostra relazione alla verità definisce la nostra maniera di abitare il mondo.

Prima di indagare i tre regimi della verità e le loro variazioni, è opportuno soffermarsi sul concetto di infosfera. Ne La quarta rivoluzione Luciano Floridi osserva come l’infosfera non coincida semplicemente con il cyberspazio:

 

«A un livello minimo, l’infosfera indica l’intero ambiente informazionale costituito da tutti gli enti informazionali, le loro proprietà, interazioni, processi e reciproche relazioni. È un ambiente paragonabile al, ma al tempo stesso differente dal, cyberspazio, che è soltanto una sua regione, dal momento che l’infosfera include anche gli spazi d’informazione offline e analogici. A un livello massimo, l’infosfera è un concetto che può essere utilizzato anche come sinonimo di realtà, laddove interpretiamo quest’ultima in termini informazionali. In tal caso, l’idea è che ciò che è reale è informazionale e ciò che è informazionale è reale. È in questa equivalenza che hanno origine alcune delle più profonde trasformazioni e delle sfide più rilevanti di cui faremo esperienza nel prossimo futuro riguardo alla tecnologia.

La transizione dall’analogico al digitale e la crescita esponenziale di spazi informazionali in cui trascorriamo sempre più tempo illustrano con massima evidenza il modo in cui le ICT stanno trasformando il mondo in un’infosfera.»

 

L’infosfera comprende i diversi spazi dell’informazione, di cui il cyberspazio è una regione. Lo sviluppo però delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT), con la conseguente e sempre più marcata transizione dall’analogico al digitale, stanno trasformando l’intera realtà in un’infosfera

 

Dalla rivelazione all’assoluta trasparenza

 

La rivelazione è la verità che afferra all’improvviso il soggetto. La sua temporalità è quella dell’evento, di un accadere che riconfigura l’esistenza. Il tempo della rivelazione è un appello che si rivolge alla “singolarità” – “singolarità” e “singolo” sono qui presi nell’accezione kierkegaardiana. Sebbene associata all’ambito religioso, la verità come rivelazione incarna un’esperienza fondamentale dell’esistenza. Gli stati emotivi intensi (ad esempio l’estremo dolore) sono spesso all’origine di rivelazioni. Affinché la rivelazione possa darsi, è necessario che il soggetto sia in una situazione di raccoglimento.

 

La rivelazione chiama infatti il singolo che prova ad essere a contatto con il proprio io profondo e che non si limita quindi a esistere nella dimensione anonima e impersonale del «si» (cfr. Martin Heidegger, Essere e tempo) o dell’io superficiale (cfr. Henri Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza). Se non si ritorna costantemente “in” e “su” se stessi, se la relazione al mondo non pone domande essenziali, la rivelazione è impossibile. Senza singolarità nessuna rivelazione. D’altra parte, affinché vi sia rivelazione non basta la singolarità, occorre anche che il mondo come orizzonte dei possibili abbia una profondità. In altre parole, la profondità dell’io va di pari passo con quella del mondo. Una rivelazione può darsi se la realtà cela misteri, ha segreti da rivelare, se quello che ci circonda soggiorna nella velatezza, tra aperto e nascondimento. È noto quanto un filosofo come Heidegger abbia insistito su questo aspetto della verità. In un ciclo di lezioni dedicato a Eraclito afferma:

 

«Il termine physis nomina il sorgere, che dispiega la propria essenza ritornando in se stesso. Nell'unità originaria di questi due momenti dispiega la propria essenza la physis, nome iniziale greco di quel che noi chiamiamo essere. Da un lato però nell'essenza del sorgere c'è il lasciar venir fuori, ossia il venir fuori nell'aperto: il disvelamento che in greco si dice aletheia. E d'altro canto nell'essenza del ritornare in se stesso c'è il ritirarsi, il trattenere e il nascondimento, che però i Greci non nominano espressamente. Questo non-nominare il disvelamento che si dispiega sulla base del nascondimento è una mancanza e una carenza dell'espressione linguistica, in cui si nasconde forse il mistero più profondo dell'essenza fondamentale del pensiero greco.» (Martin Heidegger, Eraclito)

 

Nei primi pensatori la physis è ciò che sorge, che si dischiude, che viene fuori all’aperto. Questo movimento di apertura porta però sempre con sé un ritrarsi, un’eccedenza di nascondimento che preserva l’apertura della verità come aletheia. Non è questa la sede per analizzare in dettaglio la riflessione di Heidegger sulla verità. Quello che preme sottolineare è la necessità di una corrispondenza tra raccoglimento e accoglimento, tra il singolo e il mondo, affinché la verità come rivelazione possa accadere. La singolarità così come la physis, pensata come darsi nel nascondimento, sono condizioni di possibilità della rivelazione. Ora, nell’infosfera entrambe tendono a sparire. Il soggetto perde la sua singolarità: ridotto a un insieme di dati è frammentato, indicizzato, integrato in relazioni algoritmiche che riducono il diverso all’uguale. Allo stesso modo la realtà è suddivisa in ammassi di informazioni che la conducono in un’assoluta trasparenza, in una visibilità pornografica. Con Han si può dire che:

 

«per principio, le informazioni non possono essere velate: sono per natura trasparenti. Devono essere semplicemente lì presenti e rifiutano qualsiasi metafora, qualsiasi veste che le veli. Esse parlano chiaro e tondo. In ciò si distinguono anche dal sapere, che ha la possibilità di ritrarsi nel segreto. Le informazioni seguono un principio del tutto diverso: sono orientate allo svelamento, alla verità ultima. Sono per natura pornografiche.» (Byung Chul Han, La salvezza del bello)

 

Se tutto diventa informazione, allora io e mondo sono scacchiati su un’assoluta trasparenza priva di profondità. Nell’infosfera non è possibile alcuna rivelazione: accoglimento e raccoglimento sono cortocircuitati dal “chiaro” e “tondo”. L’informazione dice tutto, è rumorosa, non consente l’ascolto attento. Dove si dice tutto, non vi è più nulla da dire e nulla da ascoltare, nulla allora da accogliere. Dove tutto è immagine, dove le cose, i paesaggi, gli orizzonti sono big data, non vi è spazio per il sorgere e il ritrarsi. Il divenire del mondo è ridotto a un anonimo flusso di informazioni “scrollabili”; e “scrollare” è l’unica azione rimasta a un soggetto disciolto in un pacchetto di informazioni tra infiniti pacchetti di informazioni. 

 

Rembrandt Harmenszoon Van Rijn, Lezione di anatomia del dottor Tulp, 1632
Rembrandt Harmenszoon Van Rijn, Lezione di anatomia del dottor Tulp, 1632

Dalla verità come adeguamento alla positività indiscutibile dell’apparire

 

La verità come adeguamento è alla base dei discorsi fattuali. Tra le formulazioni più note di questo atteggiamento nei confronti della verità è spesso citata quella di San Tommaso:

 

«Ogni conoscenza si attua per mezzo dell'assimilazione del soggetto conoscente alla cosa conosciuta, così che l'assimilazione è detta causa della conoscenza; per esempio, la vista conosce il colore, poiché si dispone secondo la specie del colore. Dunque, il primo rapporto dell'ente con l'intelletto è che l'ente concordi con l'intelletto e questa concordanza è detta precisamente adeguazione della cosa e dell'intelletto e in ciò si realizza formalmente la natura del vero. Ed è questo, dunque, che il vero aggiunge all'ente, vale a dire la conformità o l'adeguazione della cosa e dell'intelletto e a questa conformità, com'è stato detto, consegue la conoscenza. E così, dunque, il ciò che è della cosa precede l'essenza della verità, mentre la conoscenza è un certo effetto della verità.» (S. Tommaso, Sulla verità)

 

Di questo importante testo si ritiene quasi sempre solo l’affermazione che la verità è l’adeguazione della cosa e dell’intelletto. Ma nel passo sono anche indicate le condizioni di possibilità della verità come adeguamento. La prima è una distanza tra soggetto conoscente e cosa: affinché possa darsi l’“assimilazione” del soggetto conoscente alla cosa, tra i due vi deve essere uno scarto. La conoscenza si costruisce all’interno di uno spazio che dà luogo all’osservazione, all’interrogazione, alla verifica. Tali operazioni abitano, nutrono e animano la distanza che fonda la verità come adeguamento.

 

Dalle parole di San Tommaso si può dedurre anche una seconda condizione di possibilità. «Il ciò che è della cosa precede l’essenza della verità». La verità come adeguamento si dà in un mondo di cose; le cose con la loro resistenza sono la condizione di possibilità della concordanza. A San Tommaso bisogna aggiungere che le cose sono nodi di indeterminatezza; esse si sottraggono alle nostre domande e in questo sottrarsi le rendono possibili. Ad esempio, una mela prima di essere un frutto con determinate caratteristiche, prima di essere un oggetto, è una cosa, un essere-là che si dà alla percezione e all’intelletto. I sensi la osservano, la tastano e la gustano; l’intelletto la concettualizza, la riconduce al simile. Ma nessuna percezione e cognizione potrà esaurire il suo essere cosa; resteranno sempre aperte nuove possibilità di adeguamento e di conoscenza.

 

Con la colonizzazione dell’analogico da parte del digitale la verità come adeguamento entra in crisi. Vacillano le sue condizioni di possibilità. La distanza tra l’io e la realtà svanisce: soggetto conoscente e cosa sono appiattiti nell’unidimensionalità dell’infosfera. L’assimilazione che prevede uno scarto è sostituita da un’informazione disponibile a uno sguardo anonimo che può solo guardare, non interrogare. L’interrogazione è posta infatti da un soggetto, ma al soggetto è rimasta come unica opzione quella di seguire i suggerimenti che gli algoritmi elaborano in base alle preferenze indicizzate degli utenti. Le domande e le risposte sono già date, comprese nei big data.

 

L’interrogazione è posta a una cosa, mentre nell’infosfera regnano le non-cose. La cosa resiste e pre-esiste alle domande e alla conoscenza. Le cose si danno parzialmente nei decorsi percettivi, negli adombramenti. Le non-cose sono informazioni che appaiano in una pura e autoreferenziale visibilità. Una mela della storia di Instagram non è più una cosa, piuttosto un pacchetto di informazioni. La crisi della verità come adeguamento abolisce la stessa distinzione tra il vero e il falso. Lì dove non vi sono più soggetti e non vi sono più cose, non ha più senso parlare di vero e di falso. La diffusione delle fake news è il corollario di una società dell’informazione, in cui non vi è luogo per i discorsi fattuali. Siamo di fronte a una nuova forma di nichilismo:

 

«Il nuovo nichilismo – nota ancora Byung Chul Han – è un fenomeno del XXI secolo. Appartiene alle distorsioni patologiche della società dell’informazione. Nasce nel momento in cui perdiamo la fede nella verità stessa. Nell’era delle fake news, della disinformazione e delle teorie del complotto, stiamo perdendo la realtà e le verità fattuali. L’informazione circola ormai completamente scollegata dalla realtà, in uno spazio iperreale. Si perde la fiducia nella fattualità. Viviamo quindi in un universo de-fatticizzato. In definitiva scompare, con le verità fattuali, il mondo comune a cui potremmo riferirci nelle nostre azioni.» (Byung Chul Han, Infocrazia)

 

La crisi dei discorsi sui fatti, sul vero e sul falso rende fragili le coordinate della ragione occidentale. Tutto è vero e falso, tutto è soggettivo e oggettivo. Il principio di identità crolla: A è A, ma anche B e C…Una nuova forma di oscurantismo è alle porte, ben peggiore di quella contro cui combattevano gli illuministi. Questi lottavano per allontanare con la ragione le tenebre delle superstizioni. Oggi, invece, la ragione dovrebbe contrastare una visibilità accecante e assordante che non lascia ombre. Quale luce dovrebbe rischiarare ciò che tutto illumina?

 

La credenza disincarnata

 

Il terzo tipo di verità, la credenza, è legata all’atteggiamento del “professare”. La verità come credenza è agita, incarnata con il proprio essere nel mondo. Il soggetto si sforza di coincidere con la propria verità. Vi sono, certo, credenze più o meno sentite, ma nella sua forma originaria la credenza è una verità assunta con l’intero peso della singolarità. La verità come credenza è intimamente connessa alla questione della parresia. Il soggetto che crede nella propria verità con tutto il suo essere la mostra e la dice.

È importante seguire in proposito le analisi di Michel Foucault:

 

«Mi è sembrato egualmente interessante analizzare, nelle sue condizioni e nelle sue forme, il tipo d’atto attraverso il quale il soggetto, dicendo la verità, si manifesta, e con questo intendo dire: si rappresenta a se stesso ed è riconosciuto dagli altri come un soggetto che dice la verità. […] Non soltanto è necessario che questa verità rappresenti il parere personale di chi parla; ma bisogna che chi parla la esprima non a fior di labbra, bensì come manifestazione reale di ciò che pensa: ed è in questo senso che egli sarà un parresiasta. Il parresiasta esprime la sua opinione, dice quel che pensa, firma, in qualche modo, la verità che egli stesso enuncia: si lega a tale verità; a essa perciò si vincola e grazie a essa assume degli obblighi. […] Perché ci sia parresia […] bisogna che il soggetto, esprimendo una verità che coincide con la sua opinione, con il suo pensiero, con la sua credenza, assuma un certo rischio: un rischio che riguarda la relazione con il suo interlocutore. Perché vi sia parresia, bisogna che chi dice la verità apra, introduca e affronti il rischio di ferire l’altro, di irritarlo, di farlo andare in collera e di provocare certi suoi comportamenti che possano spingersi fino alla violenza più estrema.» (M. Foucault, Il coraggio della verità)

 

Il “credente” – qui inteso come colui che è tutt’uno con la propria verità – ha il coraggio di dire la verità, assume il rischio nel dirla di «ferire l’altro, di irritarlo, di farlo andare in collera». Nella sua forma più pura e autentica il credente è il parresiasta, e va ben distinto dal fanatico. Quest’ultimo vuole imporre la verità con la forza: nell’agire così mostra di non credere fino in fondo in ciò che testimonia. Solo chi non crede nel potere della propria verità, verità da incarnare con l’esempio e con la coerenza tra pensiero e bios, desidera imporla. L’imposizione è un segno di debolezza. Infatti, non è un caso che i parresiasti si siano sempre schierati contro ogni fanatismo politico e religioso. Un parresiasta per eccellenza nel mondo antico è Diogene il cinico, che non teme di dire la verità ai potenti.

 

La parresia ha una forte valenza politica, nel senso che l’agire del parresiasta risponde spesso all’esigenza di vero della città. Il parresiasta denuncia le ipocrisie del proprio tempo, soprattutto di chi governa celando gli interessi personali dietro un falso amore della giustizia. Certo, la piena assunzione di una verità si può scontrare con le profondità di un io che non riesce a comprendersi, che si perde negli abissi della psiche. Ma resta comunque la tensione verso l’autenticità, che si manifesta nella volontà di essere sinceri con sé e con gli altri.

 

Nell’infosfera la verità come credenza entra in crisi. In apparenza, l’infosfera è il regno della parresia, perché si dice tutto e ognuno si sente autorizzato a dire tutto – non dimentichiamo che l’etimologia del termine parresia è “dire tutto”. D’altra parte il “dire tutto” si risolve in una chiacchiera anonima, e spesso ostile, dove non si manifesta alcuna reale credenza. Si dice tutto e il contrario di tutto, si crede a tutto e a niente. La credenza diventa l’adesione di un soggetto anonimo – ad esempio una community o semplici utenti che appongono un like – a un’opinione. La sincerità e la parresia nella sua accezione positiva sono annullate. Non c’è io che possa difendere o testimoniare la verità. Nell’infosfera tutti gli io possono avere la stessa presunzione di “incarnare” il vero, e questo perché gli io sono tutti disincarnati.

 

Conclusione

 

La colonizzazione dell’analogico da parte del digitale sta cambiando in modo radicale la relazione dell’uomo alla verità. Si tratta di un mutamento antropologico epocale. L’uomo si definisce nel suo rapporto alla verità, nella sua capacità di accoglierla, di argomentarla e di testimoniarla. Questi tre atteggiamenti fondamentali sembrano entrati in una crisi profonda e forse irreversibile. Viene da chiedersi se, ben prima dei possibili scenari distopici prospettati dai transumanisti, la nostra epoca non sia già postumana, troppo postumana. 

 

22 Novembre 2024

 








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