Il revival degli studi bergsoniani ha portato negli ultimi anni alla riscoperta dei corsi liceali e universitari tenuti dal pensatore francese. Il Bergson-docente non ha forse molto da aggiungere al Bergson-filosofo. Tuttavia sarebbe un errore considerare l’attività didattica come secondaria rispetto a quella teoretica. Lo studio delle lezioni permette di approfondire aspetti importanti della riflessione bergsoniana e di apprezzare lo stile espositivo chiaro e rigoroso di un maestro del pensiero.
In questo articolo si prenderà in esame una breve ma profonda analisi del concetto di genio elaborata dal giovane Bergson nel Corso di psicologia svolto nel Liceo Henri IV tra il 1892 e il 1893.
L’intensificarsi negli ultimi venti anni degli studi bergsoniani ha indotto la critica a porre attenzione anche ai corsi liceali e universitari tenuti dal pensatore francese. In merito, l’attività di docenza nei licei è ancora più indicativa. Nel rivolgersi a un pubblico di adolescenti, Bergson pesa con grande attenzione le parole. Evita l’erudizione e le inutili complicazioni; segue ragionamenti il più possibile lineari; si avvale di esempi semplici per argomentare le tesi, e nei punti cruciali dell’argomentazione fornisce brevi e puntuali riepiloghi.
Per mostrare il modo di “insegnare” filosofia di Bergson, mi soffermerò su una breve lezione sul concetto di genio che rientra nel Corso di psicologia svolto nel Liceo Henri IV tra il 1892 e il 1893.
Bergson suddivide idealmente la sua esposizione in tre fasi: nella prima esamina i caratteri della produzione geniale, nella seconda la sensibilità del genio, nella terza gli elementi del processo creativo.
L’ordine non è casuale: Bergson preferisce infatti partire dal dato concreto della produzione per poi passare ad aspetti meno visibili come la sensibilità e il processo creativo.
A conclusione dell’analisi vedremo come Bergson possa aiutarci a interrogare i limiti imposti allo sviluppo della creatività da una società, come la nostra, in cui domina l’iperstimolazione sensoriale.
I caratteri della produzione geniale
La produzione geniale presenta tre caratteri fondamentali: la fecondità, la varietà e la profondità.
Per prima cosa il genio produce molto.
« Uno dei caratteri significativi della produzione geniale è la sua fecondità. Gli uomini di genio, che siano artisti, scienziati, grandi politici o grandi condottieri, hanno prodotto molto. […] Questo è il carattere più esterno, più superficiale, ma anche più eclatante del genio. » (H. Bergson, Corso di psicologia)
Il genio è prolifico, ma questo è l’aspetto quantitativo e più superficiale della produzione.
Affinché una produzione sia geniale, non basta infatti la fecondità, occorre che essa sia varia, che le opere prodotte siano diverse tra loro. Il genio tende insomma a non ripetersi.
« Un secondo carattere è la varietà nella produzione. […] Un tratto caratteristico della creazione del genio è il seguente: se è vero che le sue opere hanno una certa somiglianza, un’aria familiare, è anche vero che ognuna di esse vive di vita propria. Si tratta forse dell’elemento più importante per distinguere il genio dal semplice talento. » (Ivi)
Le opere prodotte dal genio presentano elementi che le accomunano, ma ognuna costituisce un mondo a sé. Ad esempio, per quanto si possano trovare tra la Vita nuova e la Divina Commedia di Dante Alighieri dei punti di contatto o la persistenza di alcuni temi, nessuno oserebbe dire che la Divina Commedia è contenuta in nuce nella Vita nuova. Il genio ha la capacità di stupirci costantemente con una produzione varia e originale. Nelle sue opere ravvisiamo quella «creazione continua di imprevedibile novità» (H. Bergson, Pensiero e movimento) che per Bergson definisce l’essenza stessa della vita.
L’importanza della varietà permette anche di distinguere con precisione il genio dal talento.
« Un uomo di talento può senz’altro avere successo e creare un’opera che resta, ma in genere produce solo quella, per poi ripeterla e ripetersi. […] Al contrario, l’uomo di genio è capace di uscire di sé e di creare opere che, per così dire, sono tutte vere e proprie persone. » (H. Bergson, Corso di psicologia)
L’uomo di talento può creare un’opera che lascia il segno; non sarà però in futuro in grado di essere all’altezza di questo exploit. Tenderà infatti a ripetersi, non riuscendo più a trovare lo slancio per superare se stesso. Il genio invece ha la capacità di uscire da sé, di collocarsi in un’eccentricità che gli consente di creare più di una volta qualcosa di unico.
Le opere del genio sono autonome, «vere e proprie persone». Quest’ultima osservazione introduce l’ultimo carattere: la profondità.
« Infine un terzo carattere dell’opera di genio è la profondità. La profondità di un’opera la rende tale che non la si può mai conoscere o analizzare del tutto. […] Ogni nuova generazione trova altre cose nelle stesse opere di genio e l’analisi non è mai definitiva. » (Ivi)
Proprio come una persona, ogni opera prodotta dal genio è profonda, non può mai essere compresa o analizzata del tutto. Nella produzione geniale vi è un’eccedenza di senso che nessuna esegesi, anche la più fine e la più esperta, riuscirà mai a esaurire.
L’opera del genio ha sempre qualcosa da dirci, da insegnarci; è capace continuamente di meravigliarci. Vale per essa quello che Eraclito affermava a proposito dell’anima: per quanto la si possa percorrere non si riuscirà mai a raggiungere i suoi confini.
Definiti i tre caratteri della produzione geniale, Bergson chiude la prima fase del ragionamento mostrando l’analogia tra genio e natura. Anche se in proporzioni di gran lunga maggiori, la produzione della natura è feconda, varia e profonda. La natura produce un’infinità di opere diverse tra loro e ognuna cela un mistero che non potrà mai essere svelato fino in fondo.
« I tre caratteri indicati avvicinano il genio alla natura: la natura è feconda come il genio; come le opere del genio, così quelle della natura sono sempre varie e ognuna vive di vita propria. Infine, per quanto si possa approfondire la studio della natura – persino quello, in apparenza semplice, di una goccia d’acqua – e dell’opera d’arte, l’analisi non è mai completa e conclusiva. » (Ivi)
Compresi i caratteri della produzione geniale passiamo adesso alla sua genesi. Perché il genio è una persona diversa dal comune?
Per rispondere alla domanda bisogna partire dalla sensibilità del genio.
La sensibilità del genio
Il genio ha una sensibilità “particolare”. A differenza dell’uomo comune, il genio ha almeno un senso ipertrofico, ossia ipersviluppato.
« L’artista è un uomo i cui sensi sono organizzati in modo specifico per la sua arte. Il pittore e lo scultore vedono più cose rispetto all’uomo comune, distinguono un maggior numero di sfumature nei colori e nelle forme, così come l’orecchio del musicista è organizzato in modo diverso dagli altri. Non è tutto: l’artista è un uomo che prova piacere a esercitare i suoi sensi nella direzione verso cui la natura sembra averli orientati. » (Ivi)
Il pittore geniale vede “di più”; il musicista geniale coglie ritmi e sonorità che sfuggono all’uomo comune. Ma dove ha origine la particolare organizzazione dei sensi del genio?
Nella lezione che stiamo analizzando Bergson non approfondisce questo aspetto, probabilmente per non complicare troppo l’esposizione. Basta però rivolgersi a un testo, Il riso. Saggio sul significato del comico, quasi coevo al Corso di psicologia, per trovare la risposta:
« Di tanto in tanto, per distrazione, la natura produce alcune anime distaccate dalla vita. Non parlo di quel distacco voluto, ragionato e sistematico, che è opera della riflessione e della filosofia. Parlo di un distacco naturale, innato alla struttura del senso o della coscienza, che si manifesta subito, per così dire, in una maniera virginale di vedere, di intendere o di pensare. Se questo distacco fosse completo, se l’anima non aderisse più all’azione in nessuna delle sue percezioni, sarebbe l’anima di un artista che il mondo non ha ancora mai visto. Sarebbe eccellente in tutte le arti allo stesso tempo, o piuttosto le fonderebbe tutte in una sola. Percepirebbe tutte le cose nella loro purezza originaria, sia le forme, i colori e i suoni del mondo materiale, sia i più sottili movimenti della vita interiore. » (H. Bergson, Il riso)
Il “più” del senso dell’artista nasce paradossalmente da un “meno”. I nostri sensi sono organizzati in vista dell’azione. Quando afferro una mela, la vista seleziona tra le innumerevoli sfumature di colore quelle che aiutano a determinare se il frutto è maturo o acerbo. Quando ascolto una persona parlare nella mia lingua madre, l’udito individua immediatamente le sonorità rilevanti a livello fonetico ed emotivo. La percezione della realtà non è insomma mai neutra: essa ritaglia sulle cose i punti di appoggio necessari al compimento delle azioni. La percezione abbozza l’azione, la prepara, svolge dunque un ruolo che è essenziale per la sopravvivenza.
Nel genio accade un’anomalia: uno dei sensi è “distaccato dalla vita”, invece di filtrare la realtà fa passare dall’ambiente circostante più del necessario. La carenza nello svolgere il ruolo propedeutico all’azione rende possibile la percezione di aspetti nuovi del mondo. Così pittori di genio, come Caravaggio o Rembrandt, sono capaci di ammirare e di afferrare i giochi di luce all’interno di una stanza. Un musicista di genio come Camille Saint-Saëns riesce a cogliere nei versi degli animali virtualità melodiche inaspettate.
Il distacco di un senso dalla vita apre uno squarcio nella percezione.
Senza questa sensibilità superiore – che Kant definirebbe una «disposizione innata dall’animo» (Critica del giudizio) – non potrebbe darsi il genio. D’altra parte, un’organizzazione dei sensi fuori dall’ordinario non basta. Bisogna prendere in considerazione le qualità che devono entrare in gioco nel processo creativo per portare a compimento la produzione geniale.
Gli elementi del processo creativo
Per Bergson nel processo creativo sono essenziali i seguenti elementi: la pazienza, l’ispirazione, la ragione e la volontà.
Il genio è prima di tutto una persona paziente che si esercita con costanza nella sua arte:
« È sorprendente vedere nel genio l’unione di due processi che, a rigor di logica, dovrebbero escludersi: la pazienza e l’ispirazione. La pazienza prima di tutto: senza un lavoro assiduo, uno studio costante e soprattutto uno sforzo intenso, non può esserci opera geniale. » (H. Bergson, Corso di psicologia)
Il genio lavora ogni giorno, si impegna nel migliorare la propria tecnica. Il genio non si accontenta delle abilità già acquisite: vuole sempre superarsi.
D’altra parte per produrre un’opera che passi alla storia, il lavoro assiduo non basta. È necessaria anche l’ispirazione:
« Ma la pazienza non basta; accanto alla pazienza, c’è l’ispirazione. Se le grandi scoperte scientifiche sono state preparate a lungo e con pazienza da un lavoro costante che ha preso interi anni, la scoperta è invece fatta d’un colpo, in pochi istanti, come se lo spirito dello scienziato fosse stato illuminato all’improvviso. » (Ivi)
Bergson si sofferma sull’aspetto che comunemente è ritenuto più importante – mentre per il filosofo è solo uno tra quelli da tenere a mente. Sebbene preparato da un lungo studio, il processo creativo ha bisogno di un’illuminazione improvvisa per mettersi in moto. Questa intuizione che attraversa l’anima è la scintilla che accende lo slancio creativo.
Il processo non può però fondarsi unicamente sul lampo che indica al genio la direzione da seguire. È fondamentale che il genio eserciti nell’atto di produrre un giudizio sano e retto, cioè la sua ragione:
« Senza la ragione, senza un giudizio sano e retto, il genio produce opere a caso in cui non ritroviamo più il senso profondo del reale. » (Ivi)
Se l’ispirazione costituisce il momento centrifugo – che porta il genio fuori di sé –, la ragione rappresenta quello centripeto: il genio ritorna costantemente sui suoi passi per verificare il percorso compiuto, la coerenza del lavoro svolto e la corrispondenza tra risultati e intenzioni.
La capacità di esercitare con assiduità lo spirito critico, di riuscire a controllare l’estro, di restare all’interno di un proprio metro che scandisca l’inizio, lo sviluppo e il buon esito dell’opera, è l’espressione di una volontà ben salda.
« Il ruolo della volontà non è meno importante. Come potrebbe la volontà non costituire una parte del genio […] ? Esiste una volontà intensa e, si potrebbe dire, sempre presente a se stessa, una volontà tesa costantemente nella medesima direzione e grazie alla quale tutte le osservazioni raccolte, le idee percepite, le sensazioni provate sono concentrate in vista di un solo e identico fine. » (Ivi)
La volontà coincide con l’attitudine a concentrare per un tempo prolungato l’attenzione «in vista di un solo e identico fine». Una delle peculiarità del genio consiste infatti nel possesso di un’attenzione in grado di estendersi in profondità e in durata. In altre parole, l’attenzione del genio “si tiene” su intervalli temporali ampi senza perdere di intensità. Si può dire allora che il genio ha una rara dote di raccoglimento: egli sa stare presso di sé e presso le cose come nessun altro.
A causa di questo suo modo di essere “eccentrico” rispetto all’uomo comune, il genio può apparire ai più come un distratto, perfino folle. Ma Bergson puntualizza – in controtendenza rispetto a una diffusa letteratura del tempo – come la somiglianza tra il genio e il folle sia meramente superficiale.
« Il folle è distratto, perché è incapace di fissarsi su una qualsiasi cosa. Al contrario, il genio presenta il più alto grado di concentrazione intellettuale e sensibile: il genio è volontà, passione e nello stesso tempo immaginazione creatrice. Se l’uomo di genio è distratto, lo è in un senso e per ragioni diverse rispetto all’alienato. Il motivo è che l’intelligenza del genio, le sue emozioni e la sua volontà sono concentrate su un oggetto degno di assorbire l’attività della persona. » (Ivi)
L’origine delle loro distrazioni è ben diversa. Il folle è distratto, perché non riesce a concentrarsi su nulla: l’attenzione del folle è dispersa, incapace di fissarsi anche sulle cose più semplici. Nel folle il distacco dalla vita deriva da una disorganizzazione generale dei sensi e non da una diversa organizzazione della percezione.
Il genio invece appare distratto, quando in realtà è completamente assorbito nell’attività per lui significativa. Tutto il suo essere è raccolto intorno al centro propulsore della creazione.
Conclusione
Oltre a sorprendere per il rigore e la chiarezza, l’analisi del genio di Bergson presenta numerosi spunti di riflessione. Il filosofo francese fornisce una griglia generale per valutare il genio che sembra applicabile a qualsiasi ambito. Lo stesso filosofo sottolinea del resto come il concetto di genio sia trasversale e non circoscrivibile alle belle arti.
Un altro aspetto, più attuale, che va approfondito e che dà da pensare è la questione dell’attenzione. Si è visto come il genio riesca con la sua volontà a mantenere salda l’attenzione. Nel Corso di psicologia (e non solo) Bergson indugia a più riprese sull’attenzione dedicando una lezione al tema.
« L’attenzione è una facoltà d’analisi – afferma il filosofo – , che ci permette di analizzare meglio l’oggetto, di distinguerlo con più precisione e anche di comprendere con maggiore accuratezza il suo rapporto con gli altri oggetti. L’attenzione è una facoltà di sintesi e di analisi; è all’origine della conoscenza precisa, certa, scientifica, e […] uno dei tratti caratteristici del genio. » (Ivi)
La domanda che dovremmo porci è se in una società come la nostra, dove regna il multitasking e l’attenzione è distratta senza sosta dagli smartphone e da sollecitazioni esterne di vario genere, sia ancora possibile il raccoglimento necessario alla creazione. Il filosofo Byung-chul Han nota come la società odierna stia facendo regredire l’attenzione a una forma “selvaggia”, animale:
« La tecnica del tempo e dell’attenzione definita multitasking non costituisce un progresso civilizzante. Il multitasking non è un’abilità di cui sarebbe capace soltanto l’uomo nella società del lavoro e dell’informazione tardo-moderna. Si tratta, piuttosto, di un regresso. Il multitasking infatti si trova già largamente diffuso tra gli animali in natura. È una tecnica dell’attenzione indispensabile per la sopravvivenza nell’habitat selvaggio. […] L’animale non può immergersi contemplativamente in ciò che ha di fronte perché, insieme, deve rielaborare lo sfondo. Non solo il multitasking ma anche attività come i videogiochi generano un’attenzione diffusa ma superficiale, simile al modo in cui è vigile un animale selvatico. Gli sviluppi sociali più recenti e il modificarsi strutturale dell’attenzione avvicinano sempre più la società umana allo stato di natura. » (Byung-Chul Han, La società della stanchezza)
D’altra parte, l’epoca attuale non ostacola solo l’attenzione. È un po’ l’intero orizzonte sensibile-processuale-produttivo alla base del genio a vacillare. La nostra è una società frenetica e impaziente, che mette in primo piano il raggiungimento dei risultati e non dà alcun valore – se non negativo – ai lunghi tempi di gestazione da cui spesso nascono le grandi opere. La varietà e la profondità sono minate dall’esaltazione indiscussa della fecondità come unico carattere economicamente rilevante. Anche la sensibilità del genio non trova grande spazio: la contemplazione distaccata è quasi impossibile dal momento che l’iperstimolazione è continua.
La nostra epoca favorisce una distrazione più vicina a quella del folle – nel senso che impedisce la concentrazione su una qualsiasi cosa – che a quella del genio.
La griglia proposta da Bergson per comprendere le dinamiche del genio si rivela quindi un utile strumento per interrogare il futuro di una creatività che oggi appare – nonostante tanti proclami in senso contrario – castrata nelle sue stesse fondamenta.
18 Ottobre 2024
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