Creare se stessi con Bergson

 

Stanchi di frasi motivazionali preconfezionate e modelli di successo imposti dalla società? Henri Bergson ci invita a ripensare il concetto di crescita personale. Non si tratta di scalare vette di produttività, ma di un viaggio interiore verso la creazione di sé. Liberiamoci dalle abitudini e dagli automatismi che ci ingabbiano, per riscoprire l’io profondo.

 

di Salvatore Grandone

Salvador Dalì, Vestigia ataviche dopo la pioggia, 1934
Salvador Dalì, Vestigia ataviche dopo la pioggia, 1934

 

Parlare di crescita personale è quasi un mantra tra educatori, mental coach e psicologi. Sui social fioccano frasi a effetto o brevi video per motivare a “superare se stessi”. “Non esistono limiti invalicabili”, “tutto è possibile”, “basta crederci e qualsiasi sogno può diventare realtà”. Poche volte si affronta il telos della crescita. A che scopo crescere? Qual è il luogo verso cui indirizzare il nostro impegno e il nostro sacrificio? La risposta ruota in genere intorno a un altro classico topos: la “piena realizzazione di sé”, un’espressione passe-partout dai confini indistinti. Ipotizziamo, alla maniera di Kant (Cfr. I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico), che la felicità sia un concetto empirico, che non sia definibile universalmente, che il progetto greco dell’eudemonia sia anacronistico. Questo legittimerebbe la vaghezza sul “fine”?

 

In effetti, più si resta nell’indeterminato, più si ha l’impressione che il discorso sulla crescita personale converga impercettibilmente verso l’esaltazione dei modelli di successo imposti dalla società. Quella che si propone come una terapia “low cost” per riscoprire il vero sé e dispiegare il proprio potenziale, si risolve in un malcelato incitamento al conformismo. Del resto, la “terapia” che “funziona” non è mai a buon mercato. Non nel senso che per curare i mali dell’anima occorra scegliere un “terapeuta” blasonato e dunque costoso. A volte ci vuole anche quello, certo, ma non basta. È un’altra la “terapia” ad essere qui in gioco: non si tratta di guarire da una patologia ben definita, inquadrabile magari nel DSM-5, ma da noi stessi, dal modo in cui ci rappresentiamo, dal presunto scarto tra l’io reale e l’io ideale.

 

La questione della “crescita personale” riguarda prima di tutto un problema di senso, di essere nel mondo. E allora concentrarsi sul fare e sulle regole da seguire per raggiungere “il…”, il “non si sa cosa” o semplicemente il “tutto e niente”, non è la strada buona. Meglio in queste situazioni farsi consigliare dai filosofi per iniziare seriamente a mettersi alla prova. Sulla base di alcuni spunti del filosofo francese Henri Bergson (1859-1941), si cercherà di ricollocare la “crescita personale” in un orizzonte più ampio: la “creazione di sé da sé”.

 

Le abitudini

 

Salvador Dalì, Lo svezzamento dei mobili nutrimenti, 1934
Salvador Dalì, Lo svezzamento dei mobili nutrimenti, 1934

 

Nella conferenza L’anima e il corpo – raccolta in seguito ne L’energia spirituale – Bergson avanza una definizione illuminante dell’azione volontaria:

 

« l’azione volontaria si ripercuote su colui che la vuole, modifica, in una certa misura, il carattere della persona da cui emana, e compie, con una specie di miracolo, questa creazione di sé da sé, che ha tutta l’aria di essere l’oggetto stesso della vita umana. » (H. Bergson, L’energia spirituale)

 

L’azione volontaria si riverbera sul soggetto che la compie trasformandolo. Quando l’agente si rispecchia nell’azione, ovvero coincide con essa, avviene un miracolo: l’azione si ripercuote sull’io, lo modifica, lo ricrea. L’azione che emana dal più profondo del nostro essere intensifica l’esistenza. Ma cosa vuol dire “creare se stessi”? In che senso l’azione volontaria è un’azione creatrice? Per rispondere a queste domande occorre soffermarsi su come si agisce per lo più. Fin dal Saggio sui dati immediati della coscienza (1889), Bergson osserva come l’uomo sia un animale abitudinario.

 

Bergson riprende l’adagio “primum vivere”: come ogni essere vivente, l’uomo deve pensare in prima istanza alla sopravvivenza. Ecco perché una volta individuati o appresi dei comportamenti efficaci, si tende a ripeterli e a renderli automatici; vengono tradotti in abitudini. Gli automatismi consentono di liberare energie psicofisiche per altri obiettivi, e offrono quindi sul piano pratico un grande vantaggio. 

 

Si pensi ad esempio a come sia utile l’esecuzione automatica della serie ordinata di azioni che servono a guidare un’autovettura. Grazie a questi automatismi, che dopo qualche lezione di scuola guida cominciano a iscriversi nel corpo, si riesce a prestare attenzione alla strada, ai segnali, alla persona che parla accanto. Le abitudini e gli automatismi contratti affrancano la mente e il corpo per nuovi compiti. Ha ragione allora Bergson ad affermare: « Io sono un automata cosciente; lo sono perché ho tutto il vantaggio di esserlo » (H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza).

 

Vi è però l’altra faccia dalla medaglia. Un po’ alla volta le molteplici abitudini si posano sul soggetto generando una sorta di crosta. Dagli automatismi del corpo alle abitudini linguistiche, ai valori e principi morali accettati acriticamente, tutto concorre a solidificare il dinamismo dell’io, a costituire quello che Bergson chiama “io superficiale”: « la proiezione esterna dell’altro, la sua rappresentazione spaziale e per così dire sociale » (Ivi). La relazione agli altri, alle cose e a noi stessi perde di vitalità, di profondità. La coscienza tende a intorpidirsi e ad addormentarsi. Viviamo un’esistenza impersonale: Eraclito direbbe da dormienti, Heidegger inautentica.

 

La nostra società dello spettacolo che esalta l’apparire, il successo, la riuscita, la non accettazione dei limiti alimenta paradossalmente proprio l’io superficiale. È opportuno sottolineare il “paradossalmente”, perché in apparenza sembrerebbe il contrario. Non è forse il dinamismo il fulcro intorno a cui ruota il neoliberismo con il suo individualismo esasperato e la promozione dell’auto-ottimizzazione?

 

In realtà, la morale del “fare” ispessisce ancor più la crosta. Forse, per ricorrere a un’altra immagine efficace, si potrebbe paragonare l’io superficiale alla marionetta guidata da fili invisibili di cui parla Platone nelle Leggi. L’io è sospinto ora da una parte, ora da un’altra; non può uscire dalla coazione a ripetere; aggiunge il fare al fare, nuove attività alle attività già in essere, il produrre al produrre. Sembra chiaro allora che molti encomi della “crescita personale” vadano proprio nella direzione dell’ulteriore stratificarsi dell’io superficiale e non in quella della liberazione dell’io più profondo.

 

Riscoprire l’io profondo

 

Oskar Kokoschka, La sposa del vento, 1914
Oskar Kokoschka, La sposa del vento, 1914

 

Per limitare gli eccessi delle abitudini, per arginare i comportamenti nocivi indotti dalla società, Bergson consiglierebbe di rientrare a contatto con il nostro io profondo. Non è un’operazione semplice: è necessaria una conversione radicale dello sguardo. Bisogna raccogliersi in se stessi, disimpegnarsi dal divertissement, andare contro corrente per ricollocarsi nel fiume sotterraneo del nostro divenire. Ma cosa intende Bergson per io profondo? E in che modo questo riposizionamento potrebbe cambiare il nostro stile di vita? Per Bergson l’io profondo è durata:

 

« La durata affatto pura è la forma che prende la successione dei nostri stati di coscienza quando il nostro io si lascia vivere, quando si astiene dallo stabilire una separazione tra lo stato presente e lo stato anteriore ». (H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza)

 

Quando si parla della durata, i critici si soffermano in genere sui risvolti metafisici dell’intuizione-concetto della filosofia bergsoniana. Si analizzano i caratteri del tempo della coscienza (qualitativo, eterogeneo, continuo, irreversibile) e le differenze rispetto al tempo della scienza (spazializzato, quantitativo, omogeneo, discontinuo, reversibile). Del resto, è lo stesso Bergson che analizza questi aspetti nel Saggio sui dati immediati della coscienza, riprendendoli anche nelle opere successive. Un po’ in sordina o almeno in secondo piano passa l’elemento antropotecnico, il risvolto “ascetico” legato alla dimensione dell’esercizio. Si tende a dimenticare che la durata è un dato immediato a cui si accede, e che per accedervi è necessario lasciarsi vivere (se laisser vivre).

 

Abbiamo insomma una definizione di io profondo che dà molto a riflettere: l’io profondo, cioè l’io come durata, è l’io che si lascia vivere. Il lasciarsi vivere è un’attitudine che va appresa con un esercizio costante della volontà. Solo dicendo “no” alle abitudini dannose, ai pregiudizi, alle parole ripetute e abusate, ai diktat della società dello spettacolo, è possibile il passaggio dal vivere al lasciarsi vivere, dall’io superficiale all’io profondo. Si potrebbe obiettare che il lasciarsi vivere dovrebbe contraddistinguere un atteggiamento opposto al volontarismo. Come si può, in altre parole, volere quello che sembra un non volere (il lasciarsi vivere)?

 

In effetti, la volontà non si esercita sul lasciarsi vivere, ma contro quello che impedisce al lasciarsi vivere di mostrarsi. Il dato immediato della coscienza, la durata, zampilla spontaneamente appena si assottiglia la crosta delle abitudini. Non resta che comprendere lo “stile di vita” derivante da questo riposizionamento.

 

Il bios bergsoniano

 

Claude Monet, La famiglia Monet in giardino ad Argenteuil, 1874
Claude Monet, La famiglia Monet in giardino ad Argenteuil, 1874

 

Nella prefazione a Esercizi spirituali e filosofia antica il filosofo Pierre Hadot riporta:

 

« Mi ricordo sempre dell’entusiasmo con cui, nella minacciosa estate del 1939, in occasione del mio baccalaureato in Filosofia, commentavo l’argomento della dissertazione tratto da Henri Bergson: “La filosofia non è la costruzione di un sistema, ma la ferma decisione di guardare ingenuamente in sé e intorno a sé”. Sotto l’influenza di Bergson, e poi dell’esistenzialismo, dunque ho sempre inteso la filosofia come una metamorfosi totale della maniera di vedere il mondo e di essere in esso. » (P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica)

 

Pierre Hadot è uno dei pensatori del Novecento che più ha insistito sulla portata “pratica” del filosofare. Essere filosofi significa aspirare a una «metamorfosi totale della maniera di vedere il mondo e di essere in esso». Nel suo cammino di ricerca Bergson ha giocato un ruolo fondamentale e non è un caso: Hadot riconosce al pensiero bergsoniano la stretta connessione tra filosofia e bios, tra filosofia e adesione a un certo stile di vita.

 

È importante allora provare a delineare nelle sue linee generali la specificità del bios bergsoniano, interrogando il significato “pratico” del “vivere e pensare in durata” o “lasciarsi vivere”. Essere a contatto con l’io profondo vuol dire porsi in ascolto dell’io « che sente e si appassiona, […] che delibera e decide » (H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza). Muta così il rapporto alle emozioni e all’azione. « Il sentimento è un essere che vive, che si sviluppa e che di conseguenza cambia continuamente ».

 

Uno dei grandi errori di chi resta in prevalenza a livello dell’io superficiale è il trattare le emozioni come entità stabili. Si cerca di quantificarle, di sezionarle e a volte di cristallizzarle nei loro presunti momenti migliori. Ci si chiede ad esempio “quanto” si ami una persona (forza, intensità, profondità), “quali” siano gli elementi che contraddistinguono il proprio sentimento (ad esempio piacevolezza, senso di sicurezza, tranquillità) e “come” dovrebbe essere “sempre” (“come i primi mesi di fidanzamento”, “come quando ci si è sposati”, “come quando è nato il primo figlio”, ecc.).

 

Bergson invita a cambiare atteggiamento. Lascia che il sentimento divenga; vivilo come un tutto organico che fa esperienza di se stesso attraverso la relazione con gli altri e con le cose; rifletti sul sentimento in termini dinamici, pensalo come un fascio di rapporti in costante mutamento. Discorso analogo con l’agire. In genere, quando si prende una decisione si tendono a valutare in modo astratto i pro e i contro di una determinata scelta. Si mette sul “piatto della bilancia” ogni elemento che può essere utile nella deliberazione. Eppure,

 

« Vogliamo sapere in base a quale ragione ci siamo decisi, e scopriamo che l’abbiamo fatto senza ragione, e forse perfino contro ogni ragione. Ma, in alcuni casi, questa è la miglior ragione ». (H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza)

 

L’affermazione di Bergson potrebbe essere interpretata in senso irrazionalista. Ma la tesi del filosofo è che le decisioni provenienti dall’io profondo non sono il risultato di calcoli oggettivi. Sono piuttosto come il « frutto troppo maturo » (ivi) che si stacca dall’albero. L’io che si lascia vivere agisce assecondando i mutamenti del proprio essere come durata. Vivere sub specie durationis vuol dire anche sforzarsi di parlare in modo diverso. Chi è a contatto con l’io profondo pratica la « gentilezza del cuore » (H. Bergson, La politesse in Id., Écrits philosophiques). Conosce bene gli effetti che possono avere le parole sugli altri:

 

« Chi è che non si è sentito, in certi momenti, dolorosamente colpito nel suo amor proprio e d’un tratto ferito nello slancio che avrebbe potuto prendere, mentre invece in altri momenti un’armonia deliziosa lo invade, perché una parola scivolata all’orecchio, insinuandosi nell’animo e frugandolo fin nelle pieghe più segrete, è venuta a toccare questa fibra nascosta che non può risuonare senza che tutte le potenze dell’essere si scuotano con essa e vibrino all’unisono? » (H. Bergson, La politesse)

 

Le parole non sono più etichette apposte sulle cose. Si cerca di ritrovare dietro il linguaggio la « libera circolazione della vita » (H. Bergson, Le bon sens et les études classiques, in Id, Écrits philosophiques). Si evita la comunicazione ostile; non si parla alla pancia, ma alla mente e al cuore dei propri interlocutori con l’intenzione di essere al loro servizio senza essere né servi, né volersene servire.

 

« Ci sarà sempre – osserva ancora Bergson – tra questa gentilezza raffinata e l’ipocrisia ossequiosa la stessa distanza che c’è tra il desiderio di servire le persone e l’arte di servirsi di loro ». (H. Bergson, La politesse)

 

In ultima istanza, lasciarsi vivere vuol dire seguire la direzione naturale del proprio carattere:

 

« Infatti, cosa siamo e cosa è il nostro carattere, se non il condensato della storia che abbiamo vissuto dalla nostra nascita, prima della nostra stessa nascita, dato che rechiamo in noi delle predisposizioni prenatali? Noi pensiamo, è vero, solo con una piccola parte del nostro passato; ma è con la totalità del nostro passato, ivi compresa la curvatura originaria della nostra anima, che noi desideriamo, vogliamo, agiamo. » (H. Bergson, L’evoluzione creatrice)

 

La creazione di sé da sé 

Claude Monet, La lettrice, 1872
Claude Monet, La lettrice, 1872

 

Tracciato nelle linee generali il bios bergsoniano, ritorniamo alla questione della creazione di sé da sé. Rompendo la crosta delle abitudini si attinge alla fonte più profonda della nostra creatività, quella creatività che è la vita stessa.

 

« Quando ricollochiamo il nostro essere nel nostro volere, e il nostro volere nell’impulso che esso prolunga, noi comprendiamo, sentiamo che la realtà è un eterno accrescersi, una creazione che prosegue senza fine. Già la nostra volontà fa questo miracolo. Ogni opera umana che contenga una parte di invenzione, ogni atto volontario che contenga una parte di libertà, ogni movimento di un organismo che manifesti della spontaneità, apporta qualcosa di nuovo nel mondo. » (H. Bergson, L’evoluzione creatrice)

 

Colui che risale la tendenza naturale delle abitudini e va contro-corrente può ritrovarsi quanto meno se lo aspetta in un’altra, più originaria, in cui lasciarsi vivere. È la corrente del nostro io creatore, una minuscola oscillazione nell’immenso slancio della vita. Così, sui facili discorsi intorno alla crescita personale Bergson avrebbe molto da ridire. La vera crescita non va nel senso del tecnico saper fare, che ha di mira l’accumulazione. Non è il superamento dei propri limiti in termini di produttività ed efficienza. Semmai è il contrario: più l’io si auto-ottimizza, più si costringe in un’asfissiante corazza di abitudini.

 

In chiave bergsoniana la vera crescita personale va espressa nella capacità di creare se stessi. Per farlo è necessario smettere di ragionare nella logica del “fare”. Non si “crea se stessi” a colpi di “performance” e di eccessi volontaristici, ma attraverso un passo indietro che ci ricolloca nel movimento della creazione in cui già da sempre siamo immersi.


 

10 febbraio 2025

 



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