Gli spazi dell'arte contemporanea

 

Federico Ferrari si interroga sulla sorte degli spazi museali e dell’arte. Se i contenitori sono diventati più importanti del contenuto, e se l’arte si è impoverita intellettualmente e visivamente, quali sarebbero le vie d’uscita dalla palude?

 

di Massimo Pamio

 

 

SUGLI SPAZI MUSEALI

 

Federico Ferrari si pone, da filosofo, nel libro Il silenzio dell’arte, domande radicali per il mondo dell'arte contemporanea. La prima questione riguarda gli spazi deputati ad accogliere le opere. Il museo moderno appare oggi come lo spazio di una “finalità senza scopo”, in base all’apodittica legge che stabilisce l’autonomia dell’arte, e il suo non poter essere giudicata secondo contenuti che non siano vagliati al suo interno. La società è esclusa da ogni intervento. Critico e gallerista vengono così a stabilire un rapporto assoluto con l’opera e sono loro stessi a definire come debba essere concepito uno spazio artistico.

 

Tale esclusivo rapporto contribuisce a mutare anche la funzione del museo, che, slegato da ogni funzionalità, diventa un luogo meramente espositivo, privo di dimensione di culto, «luogo di un pellegrinaggio alla scoperta di un’aura che l’esposizione sembrerebbe invece impedire». Si va in un museo non per celebrare la memoria storica e sociale di una civiltà, bensì per onorare il luogo stesso (è il caso dei musei-cattedrale). Jean Clair afferma che «al valore culturale dell’opera d’arte, religiosa o sociale, si sia sostituito il suo valore espositivo, sino a rendere l’esposizione di qualsiasi cosa un valore”. L’opera diviene “la memoria mediata di un prodotto senza storia». Ai nostri giorni, il museologo è un professionista, un tecnico della conservazione. Ha bisogno di un esperto per le mostre: il curatore, che incarna, nella maggior parte dei casi, «la miseria dell’arte e della critica contemporanea. Più che un ponte tra le diverse discipline, è una figura inafferrabile, con una formazione inconsistente. È sempre alla ricerca di contratti e contrattini per crearsi una nomea vendibile, valutabile in termini monetari e di potere.». In tempi recentissimi, sono sorti nuovi musei, subito entrati in crisi a causa delle regole che li governano: la produttività e l’esigenza dello spettacolare. Sono sorti i museum food, i fast museum e fast food.

 

 

ESISTONO SOLUZIONI?

 

Come uscire da questa palude? Per Ferrari, si tratta di ripensare il concetto di arte, di spazio espositivo e la figura del critico. Lo spazio espositivo non è il padrone di casa, ma l’ospite. Occorre «rendere a ogni visitatore la presenza dell’arte e il presente del proprio tempo». Lo spazio museale non è un contenitore vuoto, deve svolgere il ruolo di contenere la tensione dell’opera e di farla risuonare, «senza isolarla o disperderla nella monumentalità vuota di un’architettura autoreferenziale.».

 

È difficile ammetterlo, puntualizza l’autore in un passo che appare come un vero e proprio manifesto programmatico, ma:

 

« siamo alla fine di un’arte di regime, la cui volgarità e povertà intellettuale e visiva è sconcertante. È necessario, affinché qualcosa d’altro possa apparire, che questa illusione ottica sia smascherata e sia rivendicato con forza (…) un altro modo di frequentare l’opera d’arte, un altro modo di fruire l’opera. Bisogna rivendicare la tradizione, senza che ciò comporti nostalgia del ritorno (…) e la necessità di un nuovo inizio che non ha nulla a che vedere con un’utopia futura, ma piuttosto con la frequentazione e l’invenzione del gesto artistico. »

 

Nelle perentorie rivendicazioni di Ferrari, lo scrivente si ritrova perfettamente, avendo sostenuto gli stessi principi in vari libri (nelle monografie critiche su Sergio Padovani, Pierluca Cetera, Agostino Arrivabene, Greta Bisandola alle quali si rimanda per cfr.), in particolare quelli riguardanti una rinascita di una vera e colta critica d’arte che provveda a differenziare i vari generi che sono sorti nel Novecento, cancellando il termine “contemporaneo”, frutto di un errore grossolano e di una concezione che è figlia del «mondo delle mega-mostre (…) identiche in ogni parte del pianeta, (…) è il mondo salottiero di una élite internazionale che non sente davvero più il bisogno di scoprire né di capire (…) ma semplicemente scalpita per apparire à la page.».

 

L’arte contemporanea renderebbe evidente questa decadenza, che viene dalla perdita della tensione vitale, da una sperimentazione fine a se stessa. Ci si troverebbe di fronte al tempo di una latitanza critica, anzi di un declino vero e proprio della capacità critica, che si traduce in una semplice acquisizione di stilemi e di osservazioni prive di contenuti e di un reale contenuto teoretico.

 

Ferrari è dotato di un acume critico e filosofico straordinario, che assomma in sé le qualità dell’estetologo ma anche dello storico dell’arte e del sociale, di un antropologo che ha idee molto chiare anche sui fenomeni sociali e politici. Egli sostiene che l’ideale dell’arte novecentesca, quello di creare un popolo all’altezza dell’arte e di produrre una forma d’arte volta a stabilire un incontro tra arte e vita, sia stato il frutto di un fraintendimento, di una confusione tra l’essenza del fenomeno artistico e quello del politico. È prevalsa la riduzione concettuale dell’arte alla pura contingenza, alla sottomissione all’effimero.

 

ARISTOCRAZIA ANARCHICA DELL’ARTE

 

Ferrari parla di uno scimmiottamento della critica, di uno sprofondamento nel sistema economico, con la istituzione di una fabbrica di talenti (il nuovo sistema “museo”) atta ad assecondare lo spettacolare e a generare ondate culturali passeggere. Piuttosto che tentare il passo in avanti, l’arte salta sul posto, totalmente presa nell’adesione al presente, fatto che non la preserva dal mercato, anzi ne fa un prodotto di consumo. La cristallizzazione del fenomeno ha costituito una crisi da cui l’arte ha cercato di uscire producendo “derivati”, proprio come quelli del mercato bancario e finanziario, il cui valore è “derivato” dal prezzo dell’attività sottostante a cui il contratto fa riferimento. I derivati non hanno consistenza in sé, ma derivano il loro valore da un’altra attività o prodotto, proprio come le opere d’arte, che hanno assunto un valore spropositato dettato dalle oscillazioni del mercato tramite il sistema di musei, gallerie, case d’asta. La pura speculazione ha preso la scena, una scena in cui l’opera è indifferente o addirittura inesistente (posso citare la vendita a prezzi altissimi di banane, di opere tagliate a pezzettini, oppure si commette un reato contro l’arte “contemporanea”?).

 

L’asservimento dell’arte al presente o alla dimensione politica riduce la stessa a puro strumento, a mezzo da utilizzare per raggiungere una finalità: in questo modo, rileva Ferrari, l’arte scompare. Bisogna ripensare il rapporto tra arte e politica. Né art pour l’art né arte politica: l’arte non è un fine a sé, né ha un fine fuori di sé. Il suo scopo è una riflessione sul senso del creare immagini e sul mondo che l’immagine crea. È creazione di immagini, un fine che è eccentrico, che porta fuori di sé. Non deve confondersi con altre pratiche, pubblicità, intrattenimento, critica, società, politica.

 

Se l’arte è democratica, quale potere o popolo potrebbe legittimare o delegittimare l’arte? E ancora, si chiede Ferrari, essa può davvero essere giudicata da un potere o da un popolo? Il saggista affronta il problema in profondità, giungendo a definire la democrazia un regime di autoriflessività collettiva in cui ogni voce possa risuonare e vedere realizzata la propria vocazione: non un fatto, bensì un atto del possibile.

 

Il fine dell’arte, al contrario, non è la sua democratizzazione, il far credere a ogni uomo di essere un artista, o che sia il popolo, il gradimento del pubblico o il successo mediatico, a decidere che cosa sia arte. L’ideologia della cultura-spettacolo, nel promuovere “eventi” in cui si mescolava (e si continua a mescolare) l’alto col basso, per coinvolgere il grande pubblico, ha soltanto generato confusione, trionfo del vile, mostrando gli aspetti deleteri di un tentativo demagogico. Ferrari obietta che il successo delle grandi mostre spettacolari non svelano una maggiore sensibilità artistica da parte dei tanti, bensì la parodia di una devastazione globalizzata che allontana dal senso del fare artistico. L’accesso all’arte è il risultato di un processo di conoscenza non immediato, non offerto da una fruizione usa e getta. Il principio democratico non è il motore regolatore dell’arte.

 

Se la democrazia è il risultato di una prassi sociale, l’arte, al contrario, è l’espressione di un’aristocrazia anarchica che trova il proprio fondamento in sé, nella sua potenza creatrice che dal passato si rinnova nell’esperienza sempre incombente della scomparsa del gesto dei migliori in un relativismo dettato da pericoli – il consumo o l’appartenenza sic et simpliciter a un’epoca o a un popolo. La forza e il segreto dell’arte consistono proprio nella sua alterità, nel suo andare sempre al di là di ogni volontà costrittiva e riduttiva.

 

L’artista – il vero artista – è quello che vive una responsabilità estetica e non politica e che intesse un dialogo continuo con i membri della comunità artistica, non dipendendo da nessun potere. L’aristocrazia dell’arte, afferma Ferrari, è la comunità elettiva di coloro che riconoscono gli uni negli altri l’eccellenza della pratica creatrice. Nulla a che vedere con una classe sociale, con l’ereditarietà, con l’appartenenza a una classe privilegiata, bensì con la capacità e la qualità, con il talento esercitati da parte di alcuni di assumere l’eredità dei migliori, dei quali riprendono il gesto e lo stravolgono, divenendo a loro volta i migliori.

 

L’aristocrazia dell’arte non ha gerarchia, non è una condizione di privilegio ereditaria. Non si nasce aristocratici, migliori. La comunità aristocratica dell’arte non ha nessun re, nessun individuo che ne detti le regole; non ci sono tavole della Legge o Costituzioni, manuali che reggano. Nessun principio al di fuori dell’atto creativo. L’anarchia dell’arte fa tutt’uno con la sua aristocrazia. E con il talento personale e individuale – il genio – dell’artista.

 

 

6 marzo 2025

 




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