La nascita di Dio nell'anima. Leggere Meister Eckhart a partire da Michel Henry

 

Meister Eckhart ha valorizzato il tema della nascita di Dio (o del Verbo) nell’anima del credente: questa idea è il centro del suo pensiero teologico e spirituale. Secondo Michel Henry sarebbe però un errore considerare questa riflessione solo come appartenente alla «mistica». In realtà, il tema della «filiazione divina» ha un profondo significato ontologico.

 

di Giovanni Zuanazzi

 

Gherardo delle Notti, "Adorazione del bambino", 1619-20
Gherardo delle Notti, "Adorazione del bambino", 1619-20

 

Il primo scritto del Nuovo Testamento che fa riferimento alla nascita di Gesù è un brano della lettera di Paolo alle comunità della Galazia, nell’attuale Turchia, attorno all’anno 55: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare coloro che erano sotto la Legge, perché noi ricevessimo l’adozione a figli» (Gal 4,4-5). In una sintesi straordinaria, l’Apostolo presenta qui il mistero dell’Incarnazione: non parla di Betlemme, di mangiatoia, di angeli, di pastori; non fa neppure il nome di Maria. Eppure c’è tutto l’essenziale: la venuta di Gesù nella condizione umana, per la nostra salvezza. Ed è di particolare interesse che il più antico annuncio del Natale porti con sé anche l’idea che la nascita del Figlio nella carne abbia conferito agli uomini e alle donne che credono in lui l’adozione a figli (Paolo usa il termine tecnico della prassi legale romana: υἱοθεσία).

 

Questo ed altri testi paolini e giovannei sulla filiazione adottiva (cfr. Rm 8,15.23; 9,4; Ef 1,5) e sulla nuova nascita, la «nascita dall’alto» o «dall’acqua e dallo Spirito» (cfr. Gv 3,3-7; cfr. Gv 1,12), sono all’origine della riflessione dei Padri della Chiesa su un tema che avrà una larga diffusione nella storia della mistica e della spiritualità cristiane, a partire dalla fine del II secolo, come hanno dimostrato gli studi di Hugo Rahner: il tema della nascita di Dio (o del Verbo di Dio) nel cuore dei credenti. 

 

La mistica della nascita divina fiorisce lungo l’intero medioevo, soprattutto in ambito monastico, e trova la sua espressione più significativa nell’insegnamento di Meister Eckhart (c. 1260-1327/8). Possiamo anzi dire che la nascita di Dio nel fondo dell’anima, nella piccola scintilla dove l’anima coincide con Dio, sia il centro e il vertice del pensiero eckhartiano. Per il maestro turingio la nascita divina nell’anima è quella della divinità, o della Trinità tutta intera; essa si compie attraverso una partecipazione singolare alla generazione del Figlio, e in questo Eckhart resta fedele alla tradizione. Ma altre sue formulazioni sono decisamente più ardite e sconcertanti. Leggiamo ad esempio nella predica 6, Iusti vivent in aeternum:

 

« Il Padre genera suo Figlio nell'eternità, uguale a sé stesso. Il Verbo era presso Dio, e Dio era il Verbo [Gv 1,1]: era identico a lui nella stessa natura. Dico ancora di più: lo ha generato nell'anima mia. Non solo essa è accanto a lui [bî im] e, nello stesso modo, egli è accanto ad essa [bî ir] ugualmente, ma è in essa [in ir], e il Padre genera suo Figlio nell'anima nello stesso modo con cui lo genera nell'eternità, non diversamente. Lo deve fare, ne abbia gioia o dolore. Il Padre genera incessantemente suo Figlio, e io dico ancora: egli genera me come suo Figlio e lo stesso Figlio [er gebirt mich sînen sun und den selben sun]. Dico di più: genera me non solo come suo Figlio, di più: genera me come sé stesso [er gebirt mich sich], e sé stesso come me [und sich mich], e me in quanto suo essere e sua natura. In questa più interna fonte io scaturisco nello Spirito santo; è questa una sola vita e un solo essere e una sola operazione [éin leben und éin wesen und éin werk]. Tutto ciò che Dio opera è uno, perciò egli mi genera come suo Figlio, senza alcuna differenza. » (Meister Eckhart, I sermoni, pred. 6, con alcune modifiche).

 

In questo passo sembra quasi che Eckhart voglia travolgere i suoi ascoltatori proponendo affermazioni sempre più audaci, in una sorta di crescendo o climax. Che cosa vuol dire che il Padre «genera me come suo Figlio e lo stesso Figlio»? E addirittura che «genera me come sé stesso, e sé stesso come me»? Eckhart oltrepassa il linguaggio tradizionale della filiazione adottiva conferita attraverso la grazia del battesimo e insiste non semplicemente su una partecipazione alla vita della Trinità, ma su un'identificazione ipostatica con il Figlio e con il Padre. Nulla autorizza a interpretare queste affermazioni in senso puramente “spirituale”, o come una semplice metafora. Sarebbe un attenuare la loro provocatoria incisività. Come intenderle, allora, senza avallare i sospetti di eterodossia che gravarono a lungo sull’opera di Eckhart e portarono alla condanna di alcune delle sue tesi? Tenteremo di rispondere a questa domanda prendendo come guida le riflessioni del filosofo francese Michel Henry (1922-2002), fondatore di una originale fenomenologia della vita, che nei suoi scritti si è costantemente confrontato con il pensiero del maestro turingio, tanto da assimilarne in profondità i motivi ispiratori. 

 

Nella concezione eckhartiana secondo cui il Padre, il Figlio e l’anima sono una sola e medesima realtà, il filosofo francese trova una completa coincidenza con il suo concetto di vita intesa come immediatezza patica (“auto-affezione”): ossia capacità di sentire e sperimentare sé stessi nella sofferenza e nella gioia e nelle altre infinite modalità coscienziali. Questo significa essere viventi: un concetto che non ha nulla a che vedere con la biologia, perché la biologia e le scienze naturali in genere nulla sanno del sentire (per esse ciò che tradizionalmente chiamiamo vita si riduce a un insieme di processi materiali omogenei a quelli studiati dalla fisica).

 

Meister Eckhart
Meister Eckhart

 

La fenomenologia materiale di Henry vuol essere una radicalizzazione e al tempo stesso una contestazione della fenomenologia storica. Quest’ultima, dopo aver individuato nell’apparire, nella fenomenalità, la questione centrale della ricerca filosofica, intende l’apparire come «l’essere posto davanti a me» di un oggetto, nel modo dell’“esteriorità”, della “trascendenza”. A parere di Henry, si tratta di un concetto di fenomenalità che impedisce di cogliere l’essenza della manifestazione nell’auto-rivelazione della vita: ciò che si rivela a noi prima di tutto è la nostra propria vita, e la vita non può essere posta a distanza. Qui non c’è nessun oggetto, nessuna relazione, nessuna apertura ad altro da sé, quindi nessuna “trascendenza”, ma il sentire sé stessa da parte della vita nell’immanenza assoluta. 

 

Anche Eckhart, nei suoi sermoni, torna spesso su questa idea dell’assolutezza della vita: 

 

« Se qualcuno interrogasse per mille anni la vita, chiedendole perché vive, ed essa potesse rispondere, non direbbe altro che questo: io vivo perché vivo. Per il fatto che la vita vive del suo fondo proprio e sgorga dal suo proprio essere, per questo essa vive senza perché [âne warumbe], perché vive per sé stessa. » (Meister Eckhart, I sermoni, pred. 5b).

 

« Perché mangi? Perché dormi? Per vivere. Perché desideri beni o onori? Lo sai molto bene. Ma perché vivi? Per vivere, e tuttavia non sai perché vivi. Tanto desiderabile in sé è la vita, che la si desidera per sé stessa. […] Cos’è la vita? L’essere di Dio è la mia vita [Gotes wesen ist mîn leben]. Se la mia vita è l’essere di Dio, bisogna che l’essere di Dio sia il mio essere, e l’essenza di Dio la mia essenza, né più né meno. » (Ivi, pred. 6).

 

Henry è stato spesso accusato di non distinguere adeguatamente tra fenomenologia e teologia. Egli non dimentica però una distinzione che si impone in forza della stessa definizione della vita quale auto-affezione: la distinzione che separa una vita finita come la nostra, che non è capace di essere autosufficiente ma è sempre nella mancanza, nel desiderio, nella sofferenza, dalla Vita infinita che è quella di Dio, che porta sé stesso nella vita e nella gioia di vivere. Sorge perciò la domanda: come può la vita finita scaturire dalla Vita infinita? La risposta a questa domanda presuppone che si risponda previamente ad un’altra domanda che è ancora più difficile (e ai limiti della nostra capacità di comprendere): come fa la Vita infinita a donare a sé stessa la vita? 

 

Sempre sulla scorta di Eckhart, Henry ritiene di trovare una risposta nel Prologo al Vangelo di Giovanni, al cui centro sta la rivelazione di Dio come Verbo incarnato. Egli avverte che il Prologo dovrebbe essere letto alla fine del Vangelo, perché è la sua sintesi e ne racchiude tutto il senso. Nella circolarità che si instaura tra il Prologo e il Vangelo che lo segue, «la verità che li attraversa cresce vertiginosamente» (M. Henry, Paroles du Christ). E la verità secondo Giovanni consiste precisamente nel movimento eterno in cui la Vita assoluta, il Padre, viene in sé, ossia si genera (cfr. Gv 1,4: «In lui [nel Verbo] era la Vita [Dio]»).  

 

L'auto-generazione della Vita è quindi il suo entrare nella propria condizione, che è quella di provare sé stessa. Ma nessuna prova di sé è possibile se in sé non sorge l’«Ipseità» in cui la vita si rivela a sé stessa, in modo tale che in questa autorivelazione diventi Vita. Ora, la Vita assoluta non è un concetto, un'astrazione: è una vita reale che sperimenta veramente sé stessa. Ecco perché anche l'Ipseità in cui la Vita sperimenta sé stessa è un'Ipseità effettiva e reale: è un Sé reale, il «Primo Sé Vivente» in cui la Vita assoluta viene effettivamente vissuta e rivelata a sé stessa. Poiché in lui si compie questa autorivelazione, questo Primo Sé Vivente è la sua Parola. Così l'eterna autogenerazione della Vita genera in sé il suo Verbo, il «Figlio unigenito» o «Archi-Figlio», nel quale sperimenta e ama eternamente sé stessa. Allo stesso modo il Figlio sperimenta e ama sé stesso eternamente in questa Vita che lo genera generando sé stessa. 

 

Michel Henry (1922-2002)
Michel Henry (1922-2002)

È solo a partire da questo processo immanente della Vita assoluta che può essere compreso il secondo movimento, ossia la generazione del «Sé trascendentale vivente» che ognuno di noi è. Se infatti nell'auto-movimento mediante il quale la Vita non cessa di venire in sé e di sperimentare sé stessa si edifica un'Ipseità e quindi un Sé reale, effettivo, allora anche il Sé generato in questo auto-movimento della Vita è effettivo, ed è necessariamente un Sé singolare ed essenzialmente diverso da tutti gli altri. Ma io stesso sono questo Sé singolare generato nell'auto-generazione della Vita assoluta, e non sono che questo. D’altra parte, se questa nascita trascendentale si compie nel processo di venuta in sé della Vita, allora il Sé singolare che io sono non viene a sé stesso che nella venuta in sé della Vita assoluta e la porta in sé come sua premessa mai abolita, come sua condizione. Ed è proprio questo rapporto sotto forma di chiasmo del Sé e della Vita che Eckhart esprime con due affermazioni la prima delle quali non è che il rovescio dell’altra: «la vita genera sé stessa come me»; «la vita genera me come sé stessa». 

 

«La Vita genera sé stessa come me. Se con Meister Eckhart – e con il cristianesimo – si chiama la Vita Dio, si dirà: “Dio genera sé stesso come me”. La generazione di questo Sé singolare che sono io stesso, Io trascendentale vivente, nell'autogenerazione della Vita assoluta, è la mia nascita trascendentale, quella che fa di me l'uomo autentico, l'uomo trascendentale cristiano. […] Così la Vita passa attraverso ciascuno di coloro che genera in modo tale che non vi è nulla in lui che non sia vivo, né nulla che non contenga in sé questa essenza eterna della Vita. La Vita genera me come sé stessa. Se con Eckhart – e con il cristianesimo – si chiama la Vita Dio, si dirà: “Dio genera me come sé stesso”. » (M. Henry, C’est moi la vérité. Pour une philosophie du christianisme). 

 

L’interpretazione filosofica del cristianesimo di Henry non ha mancato di sollevare obiezioni. A proposito della sua cristologia si è parlato di criptodocetismo, di «un deficit dell’incarnazione» (X. Tilliette). Senza entrare nel merito di queste discussioni, ricordiamo solo che nella sua ultima grande opera, Incarnation. Une philosophie de la chair (2000), Henry ha cercato di dissipare alcune di tali perplessità, integrando la sua concezione della nascita divina con una “fenomenologia della carne” e una “fenomenologia dell’Incarnazione”. Dopo aver dimostrato che la carne è propriamente il modo in cui la vita si fa Vita, realizzandosi nel sentire immanente, Henry delinea un processo che è analogo a quello che abbiamo visto in C’est moi la vérité: come la vita finita trova la sua condizione a priori nell’Ipseità di un Primo Sé Vivente, che è l’«Archi-Figlio», così il pathos della carne del Sé finito rinvia ad un «Archi-pathos» della carne del Primo Sé Vivente. 

 

Con ciò non tutte le difficoltà sono, ovviamente, risolte. La radicalità, perfino l’unilateralità di certe affermazioni, può comportare il rischio di escludere la dimensione storica, «esistentiva», teologicamente implicata nell’Incarnazione. Secondo Henry l’Incarnazione si compie in effetti entro la Vita, cioè lontano dal «mondo», prima di esso, indipendentemente dal suo apparire. Ma d’altro canto, resta vero che il Cristo nel divenire uomo ha assunto realmente la natura umana, la nostra carne finita, capace di sentire e patire (cfr. Gv 1,14: «E il Verbo si fece carne»):

 

« Incarnandosi, il Verbo ha preso quindi su di sé il peccato e la morte iscritti nella nostra carne finita, li ha distrutti morendo egli stesso sulla Croce. A essere restaurata è pertanto la condizione originale dell’uomo, la sua nascita trascendentale nella Vita divina fuori della quale nessuna vita viene alla vita. Ma tale restaurazione è possibile solo se il Verbo stesso si è incarnato nella carne divenuta peccatrice e mortale, sicché, alla sua distruzione, emerge il Verbo stesso e, insieme, la nostra generazione in Lui, nella stretta della Vita assoluta. » (M. Henry, Incarnazione. Una filosofia della carne).  

 

A risultare decisivo è qui, ancora una volta, l’insegnamento di Eckhart. Per il maestro domenicano, infatti, la teologia dell’Essere è sì una teologia dell’unione nell’Essere-Uno, ma, come scrive Alain de Libera, «essa non può realizzarsi se non cristianamente, vale a dire per mezzo o meglio all’interno dell’essere personale di Cristo» (A. de Libera, Introduzione alla mistica renana. Da Alberto Magno a Meister Eckhart). L’uomo può unirsi a Dio solo in virtù del Cristo, nel quale l’umanità e la divinità sono un solo e identico essere personale. L’unione ipostatica della natura divina e di quella umana nel Verbo incarnato è dunque la condizione e il modello dell’unione tra la persona umana e Dio. Si veda ad esempio la Predigt 67, Got ist diu minne:

 

« Essendo della sua stessa natura, secondo la mia umanità, io sono unito al suo essere personale in modo tale da essere per grazia uno con lui nell’essere personale, e anche questo essere personale medesimo. Come egli dimora eternamente nel fondo del Padre, e io sono in lui come un unico fondo e il medesimo Cristo, portatore della mia umanità, questa è tanto mia quanto sua, nell’unica sostanza dell’essere eterno, in modo che l’essere dell’anima e quello del corpo vengono resi perfetti in un solo Cristo, in un solo Dio, in un solo Figlio. » (Meister Eckhart, I sermoni, pred. 67).  

 

La nascita di Dio nel fondo dell’anima è il tratto tipicamente cristiano di questa singolare esperienza religiosa.

 

19 febbraio 2025

 








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