Affrontare le grandi questioni etiche e sociali da una prospettiva estetica è l’approccio ricorrente che Stefano Zecchi si è dato, facendo proprio il dostoevskiano “La bellezza salverà il mondo”. “Il sole di Apollo è tramontato sulla cultura moderna, più nulla di vero sembra poter essere attestato dalla poesia, dalla musica, dalle arti figurative. Siamo tutti in attesa di un ritorno liberatore, ma non è Apollo che aneliamo, bensì Dioniso, ci è rimasta la nostalgia per la sua promessa di rinascita.” La provvisorietà della scienza, l’approccio fallibilista, sono l’antitesi della “via estetica”?
di Francesco Marcello
La lettura dell’ultimo lavoro di Stefano Zecchi scorre veloce anche per chi non ha una formazione accademica in ambito strettamente filosofico. La terra dei figli è essenzialmente un saggio estetico, un libro di antinomie e di contrasti, di distanze e di intuizioni. L’autore indica fra i suoi ispiratori Novalis, poeta, teologo, filosofo e scrittore tedesco vissuto nella seconda metà del Settecento. In quella fase fondamentale della storia, cioè, in cui l’Europa iniziava a pensare che il Medioevo, nella sua tradizione popolare e cristiana, potesse ricongiungersi e forse sostituire l'antichità greca come elemento di contemplazione fantastica. È il preludio al decadentismo wagneriano e al romanticismo: «la poesia traccia sempre la stessa parabola sull’orizzonte delle civiltà, agli inizi canta le storie degli dei e degli eroi».
Zecchi ricostruisce tutto il cammino dell’estetica dal mito di Apollo fino al “nuovo Ermes”, Euforione, che Goethe fa nascere dall’amore di Faust ed Elena. Un percorso ovviamente complesso, fatto anche di fratture e scivolamenti: inevitabile osservare, sottolinea, che «Il sole di Apollo è tramontato sulla cultura moderna, più nulla di vero sembra poter essere attestato dalla poesia, dalla musica, dalle arti figurative. Questi sono i frangenti nei quali la distanza che separa il gesto creativo dalla realtà dell’esistenza appare incolmabile e si invocano nuove forze per rimanere ancora legati alla terra».
Questa tensione che ama e genera attraverso la potenza istintiva, infatti, non afferisce ad Apollo bensì a Dioniso, «l’antico dio grato alle donne, custode della vita, enigmatica presenza di luce e di tenebre». Dioniso è l’altro volto della vita. Apollo è chiarezza dello spirito; Dioniso è eccesso, delirio, visione. Custodisce il senso originario e oscuro della vita e lo innalza oltre ogni principio e confine. «Dioniso è volontà assoluta di vivere, amore per ciò che nella vita si manifesta. Apollo contrappone l’idea alla vita, la conoscenza razionale al flusso indistinto dell’esistenza».
La domanda che a questo punto l’autore si pone, ci riporta in qualche modo a quell’arida realtà nella quale non è facile trovare i punti di riferimento auspicati: «Perché ricorrere al mito per parlare di questo contrasto facile da percepire e nel quale spesso ci siamo imbattuti nel corso della nostra stessa esperienza?» In quest’epoca cosi demitizzata, prosegue il prof. Zecchi, non c'è «asserzione di verità scientifica, il cui significato non sia già stato evocato da un racconto mitico, Apollo e Dioniso sono le figure che raccontano il significato del conflitto, delle opposizioni, delle contraddizioni della vita». E ancora: «Nella nostra civiltà è stato Apollo a prevalere su Dioniso perché ha reso accettabile e meno eversiva l’ebrezza dionisiaca, elevandola ad un livello astratto, spirituale, conferendole una stabile e controllata continuità».
Secondo Zecchi siamo tutti prigionieri di un’attesa: «non del ritorno di Apollo, ma di quello di Dioniso, del dio che dona energia e forza, del dio dell’eccesso, della visione e del sogno. Ci è rimasta la nostalgia per la sua promessa di una rinascita nella profonda connessione e corrispondenza di tutte le cose viventi. Ritrovando quell’energia antica da cui originano tutti i fenomeni del mondo, forse è ancora possibile riappropriarsi della forma, della bellezza, ‘dell’altra meta del mondo’ rappresentata dal volto di Apollo e dalla sua lira».
Il filosofo spagnolo Ortega y Gasset, a proposito delle biografie di Goethe, ha fatto più volte notare come esse siano state elaborate secondo un'ottica monumentale, una visione a distanza priva di dinamismo interiore. E in Goethe desde dentro (1933), ha provato a ribaltare questa consuetudine: «La chiave di lettura più utile» – scrisse – «per comprendere il pensiero di Goethe, la si può ottenere soltanto rovesciando il nostro legame con lui. Un esperimento di resurrezione che preserva il classico e lo riconsegna all'esistenza.
Ecco che vien fuori un Goethe esuberante, inquieto e insoddisfatto, come il suo Faust, come Werther o come Meister».
Nella Prefazione alla versione italiana del libro di Ortega Y Gasset (Goethe, un ritratto dall'interno, 2005), Zecchi ricorda come Goethe, «celebrato e ammirato, è il vero sconfitto della nostra civiltà che si è costruita attraverso la radicale scissione dei saperi, che ha sviluppato una modernità che non ha saputo evitare di specializzare le conoscenze, disgregando qualsiasi idea di organicità della vita. Non c'è neppure un pezzetto di Goethe nella nostra cultura, perché lui è il più geniale antimoderno della modernità, perché la sua visione del mondo, se avesse trionfato, avrebbe configurato una diversa concezione dell'uomo sulla Terra e in Cielo».
E ancora in questa sua ultima fatica, Zecchi, fin dal sottotitolo, auspica una futura rinascita culturale fondata su quella che definisce una nuova educazione estetica. Percorso cognitivo profondo, spirituale, in cui proprio la poesia romantica d’inizio Ottocento, il Nietzsche “barriera” al nichilismo e l’opposizione al positivismo, sono elementi fondamentali. È il fare bellezza la missione che fin dalle prime pagine, Zecchi persegue. «In questo secolo» – prosegue infatti - «abbiamo visto tramontare la speranza di fare della terra una casa per l’uomo, lentamente si è dileguata la fede in quell’energia creativa che aveva affidato alle grandi opere dell’arte il compito di rappresentare mondi possibili, si è inaridita la volontà della scienza di cercare nuove cosmogonie (e dunque di rielaborare delle spiegazioni mitologiche sull'origine delle leggi, sulla loro struttura, la loro storia ed evoluzione – n.d.r.). Per stringere un patto con l’infinito e con l’eterno».
Non per caso il capitolo Mondo Sacro si apre con un’invettiva contro la laicità dell’uomo occidentale, che Zecchi definisce «un patto con la probabilità delle cose» in cui «tutto deve essere infinitamente relativo: le leggi fisiche si conoscono per mezzo di proposizioni probabili, che consentono alla scienza di spiegare come l’intero universo, dalla stella più grande all’infima particella, sia un meccanismo matematico». La sua critica è evidentemente rivolta a tutto il mondo della sperimentazione scientifica fondato sul fallibilismo popperiano, sebbene Karl Popper non sia mai citato.
Difficile non rendersene conto, quando ad esempio Zecchi afferma: «È divenuto un fatto del tutto consueto e assolutamente ovvio che l’esperienza sensibile, concreta, debba essere tenuta alla base di ogni possibilità di comprendere qualcosa e di comunicarlo, e che le sue conclusioni possano essere convalidate o falsificate da un’altra esperienza sensibile. Cosi come è naturale pensare che attraverso l’esperimento possiamo manipolare il corso della natura, spezzando gli equilibri tradizionali».
Il pensiero di Zecchi è largamente condivisibile, soprattutto quando evidenzia che «la sfida alle verità affermate al di fuori delle regole di questo modello di conoscenza (la prassi sperimentale – n.d.r.), lanciata dal sapere scientifico, è stata ampiamente vinta». La scienza non parla di verità: essa si fonda su asserzioni provvisorie, ipotetiche, probabili. Certo, questo relativismo non poteva che portare all’annientamento dei valori che trascendono la realtà sensibile immediata.
Alla millenaria autorità dei miti e delle religioni si sostituisce quella della scienza; all’idea di salvezza promessa dalla fede si sostituisce la salvezza in questo mondo garantita dalla scienza e dalla tecnologia. Ma tutto è pur sempre provvisorio, come appunto affermava Popper. E allora, proprio il leggere come provvisoria ogni conquista scientifica e attendere una nuova fuga in avanti che la ridimensioni o addirittura la confuti, secondo la lezione fallibilista, non potrebbe essere una manifestazione di quella volontà di potenza evocata da Schopenhauer?
Per il pensatore di Danzica la volontà di potenza richiama alla volontà di vivere: il senso della vita è una forza emancipante, una spinta all'autoaffermazione; «la volontà è una forza irrazionale, unica ed eterna, senza causa e senza scopo, dal momento che è al di là del mondo della rappresentazione. Non è pertanto conoscibile tramite il tempo e lo spazio, ed è difficile trovare una ragione che da sola sia sufficiente a spiegare una realtà di fatto o ad individuare un principio di causa – effetto».
La provvisorietà della scienza si inchina alla volontà irrazionale, non è in grado di sostituirla con degli assiomi altrettanto unici ed eterni. Il fallibilismo depotenzia la supremazia della scienza. Del resto Popper, nostro contemporaneo, e Schopenhauer, vissuto nella prima metà dell’Ottocento, avevano un nemico in comune: Hegel, con la sua dialettica fondata sulla negazione e sul superamento. Secondo Popper questa descrizione della dialettica è una semplificazione incompatibile non solo con la realtà ma anche con gli stessi processi mentali che adottiamo per interpretarla.
Cosa molto diversa infatti, per quanto all’apparenza analoga, è il popperiano method of trial and error, per cui il confronto tra un paradigma, una tesi, e la sua negazione o antitesi, non deve condurre ad una sintesi, ma alla rimozione dell'idea sbagliata. Popper è diventato il riferimento dell’epistemologia contemporanea proprio per la sua convinzione di fondo: chiunque elabora una qualsiasi teoria, dovrebbe avere l'onestà intellettuale di indicare tutte le sue possibili confutazioni.
Quasi ad affermare che gli scienziati devono avere un’onestà di base che si contrappone alla disonestà intellettuale degli ideologi, affermazione provocatoria che ha aperto un vero baratro tra intellettuali di differente matrice culturale. Zecchi ritiene che i principali artefici del decadimento umano privato della verità e della pienezza del vivere, siano l’illuminismo e l’idealismo che, presupponendo «una fede profonda nella razionalità della Storia e nell’infallibilità del progresso scientifico», hanno finito per produrre l’abbandono progressivo delle domande fondamentali sul significato della vita, sul senso della verità, sul destino dell’uomo.
«Se un tempo era saggio chi sapeva cogliere la verità nella molteplicità dei fenomeni che accadevano sotto il suo sguardo, lo scienziato della modernità, al contrario, ha predisposto un metodo di analisi che frantuma la realtà in tante parti: “le scienze della modernità ci dicono ciò che è valido, ma non più ciò che è vero».
Sì, la scienza moderna, inevitabilmente, si è piegata alla statistica. Il concetto di validità – cioè l’esser certi di aver misurato ciò che s’intendeva misurare – è fondamentale prima ancora di iniziare ad indagare qualsiasi fenomeno. Ma anche qui, utilizzando gli strumenti statistici, ci si accorge che non esiste contrapposizione tra una verità intuita ed una verità accertata statisticamente. La costanza nei risultati, l’affidabilità degli strumenti utilizzati, la professionalità dei rilevatori, sono aspetti imprescindibili, ma le scienze hanno avuto grandi impulsi conoscitivi proprio grazie ad intuizioni “geniali” che solo in un secondo momento hanno trovato riscontri oggettivi. L’elenco delle scoperte “intuite” prima ancora di essere dimostrate è lunghissimo e indicano quantomeno il dubbio che il conflitto tra una scienza “relativista” e «quell’inesauribile desiderio di creatività e di significato» agognato da Zecchi, sia un solco meno profondo di quanto appare.
21 febbraio 2025
SULLO STESSO TEMA
M. Magini, Quattro questioni filosofiche riguardo ''La nascita della tragedia'' di Friedrich Nietzsche
B. Carlon, Potere è volere
A. Boccucci, Sull'esigenza di una nuova rinascita del sentire tragico