L’èra pandemica è stata scandita dall’obiezione: “La tua libertà finisce dove inizia la mia”. La richiesta di riconoscimento della piena autodeterminazione individuale, della più ampia libertà di scelta, sollevava l’immediata contestazione, un supposto principio universale da rilanciare in ogni luogo – fisico, virtuale, mediatico. A distanza di anni da quel tragico momento storico, proveremo a verificare la tenuta logica dell’obiezione espressa, la cui validità sembra ancora oggi indiscussa.
di Marco Morrone
« L’egoismo non consiste nel vivere come ci pare ma nell’esigere che gli altri vivano come pare a noi. » (Aforisma attribuito a Oscar Wilde)
La Logica è, quale arte o tecnica di pensiero, scientia scientiarum: Scienza che informa di sé ogni disciplina e branca del Sapere, movimento del pensiero che ripercorre la natura o essenza delle cose nel loro essere e divenire. Vi è una moltitudine di rami della Conoscenza, ma una sola Logica sottostante. Chi si impossessa e pratica la pura Logica, dunque, dispone della più ampia, potente e precisa forza di penetrazione nella Verità delle cose. In quanto arte o tecnica di pensiero universalmente valida, la Logica possiede le sue operazioni, mentre quelle relative alle diverse discipline scientifiche non sono che la loro specialistica particolarizzazione. Prima di sottoporre a giudizio logico l’obiezione “La tua libertà finisce dove inizia la mia”, occorre propedeuticamente fare chiarezza su quanto segue.
La Libertà, costituzionalmente – e per “costituzionalmente” intendo tanto la statuizione della nostra Carta fondamentale dei diritti e dei doveri, quanto costituzione come essenza spirituale del concetto di Libertà – è un Assoluto. Infatti, se filosoficamente e logicamente non fosse un Assoluto, neanche il relativo diritto che la riconosce potrebbe essere tale. Cominciamo dunque col porre una distinzione fondamentale: il pensiero e gli ordinamenti moderni riconoscono e garantiscono all’uomo e al cittadino poteri e diritti di duplice natura: 1) assoluti; 2) relativi.
Assoluti sono quei poteri e diritti che corrispondono a situazioni soggettive tutelate erga omnes, vale a dire nei confronti di tutti i consociati, senza che si renda necessaria da parte loro un’attiva cooperazione perché sussistano. Non occorre dunque un rapporto giuridico tra le parti (contratto o negozio) perché il diritto si costituisca. Sono riconosciuti in sé e per sé, a prescindere da qualunque situazione o relazione con l’altro o gli altri. Relativi sono invece quei diritti che assicurano al titolare un potere che si può far valere solo verso una o più persone determinate, a carico delle quali sussiste l’obbligo di fare o non fare qualcosa.
Esempio: il creditore che esige la prestazione dal debitore, cioè verso una persona determinata con la quale è venuto in essere un rapporto di credito-debito. Diritti della prima specie (Assoluti) sono quelli che la nostra Costituzione accoglie nella sezione introduttiva (“Principi fondamentali”, artt. 1-12) e nella Prima parte (“Diritti e doveri”, artt. 13-34 in particolare). Caratteristica primaria di questi diritti è, come abbiamo accennato, la loro assolutezza e universalità. Assolutezza: sono riconosciuti e garantiti al singolo uomo e cittadino in quanto tali, senza che nessuno possa interferire nel libero esercizio e nella libera espressione di essi. Universalità: sono garantiti e riconosciuti a tutti (a ognuno) nei confronti di tutti, anche allo straniero che per una qualunque ragione venga a trovarsi o stabilirsi sul nostro territorio.
Indaghiamo ora l’etimologia di “assoluto”. Assoluto viene dal latino ab (da) e dal participio passato solutum (sciolto). Assoluto significa dunque “sciolto da”, “senza vincolo”, “puro incondizionato”, “indipendente”, “libero da limitazioni”. Detto filosoficamente, “trascendente”. Significa: qualcosa che mantiene la sua integrità, immutabile, che non si scioglie a contatto con le realtà particolari (relative) e le situazioni contingenti; qualcosa che non si scioglie e dissolve perché è autosufficiente, a sé stante, in sé e per sé. Detto ancora una volta filosoficamente: qualcosa che nell’immanenza continua a rimanere trascendente.
Proviamo a tradurre in immagine il concetto. Supponiamo di avere su un tavolo cinque bicchieri, ognuno contenente una bevanda diversa: acqua naturale nel primo, gassata nel secondo, tonica nel terzo, vino bianco nel quarto e vodka nel quinto. Immaginiamo di avere in mano una piccola pepita d’oro e di immergerla nel primo bicchiere. La pepita non viene in alcun modo intaccata o modificata dal suo essere immersa nell’acqua naturale. Togliamo ora la pepita dal primo bicchiere e immergiamola di volta in volta nelle altre quattro bevande. Stesso risultato: la pepita mantiene inalterate le sue caratteristiche e qualità.
Immaginiamo ora di compiere la stessa operazione ma con una zolletta di sale. Immergendola nel primo bicchiere, seppur lentamente, prenderà a sciogliersi, andando così a perdere la sua unità e integrità. In conseguenza di ciò non può essere immersa nelle altre bevande. Analogo risultato otterremmo se immergessimo la zolletta in una delle altre bevande. Questa è, spiegata con una metafora, la differenza tra Assoluto (la pepita d’oro, che essendo in sé e per sé mai si scioglie, e può quindi essere immersa e condivisa da tutte le bevande) e Relativo (la zolletta di sale, che invece, sciogliendosi, l’acqua naturale trattiene per sé, senza più possibilità di condivisione). La pepita d’oro è dunque assoluta-trascendente, e tale rimane anche nell’immanenza – immergendosi nelle diverse bevande. La zolletta di sale è invece relativa-immanente, e a contatto con l’acqua si scioglie, perde cioè sé stessa, la sua integrità e universalità.
Torniamo all’obiezione espressa: “La tua libertà finisce dove inizia la mia”. Compiendo questa operazione di pensiero, noi assegniamo il valore di relativo alla Libertà, che è invece un Assoluto. Come? Dicendo “mia” e “tua”. Inciso: esistono due modi perché il relativo acquisti valore assoluto: o relativizzando l’Assoluto o assolutizzando il relativo. Il primo è buono e positivo, il secondo cattivo e negativo. Il principio in parola sollevato come obiezione appartiene al secondo modo: invece di un Assoluto che vive in due relativi (relativizzazione dell’Assoluto), abbiamo due assoluti che vivono in due relativi (assolutizzazione del relativo). Va da sé che due assoluti diversi non possono coesistere, perché uno limita l’altro, impendendo così che l’Assoluto sia Assoluto.
Come due monarchi che rivendicano la sovranità di uno stesso territorio: lo scontro è inevitabile e uno dei due dovrà soccombere, così che la spiritualmente indebita duplicazione dell’Assoluto cessi; così che l’Assoluto possa correttamente tornare a essere unico. Solo quando lo stesso Assoluto si relativizza e si particolarizza negli individui l’urto o scontro logico e morale, filosofico e giuridico viene scongiurato. Quando diciamo mia e tua creiamo dunque due posizioni soggettive, due libertà (mia e tua), inevitabilmente contrastanti, quando invece la Libertà, essendo un Assoluto, è una e una soltanto.
Così considerato, il concetto-diritto non ha più valore Assoluto-Universale-Infinito – la Libertà e basta, che sta al di sopra di ogni uomo finito, Trascendente, la Libertà come Principio –, ma diventa possesso individuale alla stregua di un bene materiale (quando la Libertà è invece un bene spirituale), qualcosa che concerne me e te, o me e voi. Proprio come un diritto relativo, suo opposto e contrario.
Quanto detto è insito nella stessa formulazione dell’art. 13 della Costituzione: “La libertà personale è inviolabile”. Il testo non cita la libertà di Michele o Giovanni, di Veronica o Francesca, ma enuncia un principio universale, che va oltre qualunque uomo e che ha effetto anche verso l’essere umano non ancora venuto a esistenza. Da qui il suo carattere ultra o sovra temporale, Assoluto ed Eterno. Gli uomini possono incarnarlo, ma il Principio esiste e sussiste in sé e per sé, ha solo relativamente a che fare con le singole posizioni soggettive. Potenzialmente, non ha limiti di riconoscimento e applicazione.
Non siamo noi i possessori della Libertà (assolutizzazione del relativo), ma è la Libertà che si realizza e compie attraverso di noi (relativizzazione dell’Assoluto). La Costituzione non tutela e difende dunque la nostra Libertà, ma la Libertà in quanto Libertà. Nei diritti relativi (negozio, contratto) l’identità della persona o delle persone è invece essenziale, perché il diritto relativo è appunto relativo a due o più soggetti, sorge nel momento in cui si costituisce un rapporto giuridico tra loro. Non esiste prima, come il diritto assoluto; e, diversamente dal diritto assoluto, andrà a scadenza, si estinguerà. È temporale.
Occorre che le persone si attivino per costituirlo e concluderlo. Il diritto assoluto non deve essere invece promosso, semplicemente è – è così: esiste e basta, in un eterno presente. Dunque dovremmo aver compreso che considerando la Libertà un relativo, ovvero rendendola mia e tua, essa non è più condivisibile dagli uomini. Di ciò possiamo fornire la controprova. Facciamo ritornare Assoluto il principio relativizzato, ovvero togliamo “mia” e “tua”: “La Libertà finisce dove inizia la Libertà”. O anche, in maniera più precisa: “La Libertà limita, lede la Libertà”. Quale operazione ho compiuto per elevare il relativo di nuovo ad Assoluto? Ho rimosso ciò che assegna un valore relativo al concetto, cioè “tua” e “mia”, così da lasciare il principio puro. Matematicamente, senza segno, in valore assoluto. E qual è stato il risultato? Che il principio non è più ricostituibile, perché ha generato una formula che non ha nessun senso logico: la Libertà limita, lede la Libertà.
Esattamente come la zolletta di sale nel bicchiere di acqua naturale: una volta sciolta (resa relativa) non è più possibile ricostituirla nella sua integrità – è perduta per sempre. La Libertà che limita e lede sé stessa, la Libertà che manifestandosi uccide se stessa, va da sé che allora non è più Libertà, ma qualcos’altro. E a quale nome risponde questo qualcos’altro? Al nome di arbitrio. Il principio esposto, “La tua Libertà finisce dove inizia la mia”, può qualificarsi come principio psicologico, non spirituale, e andrebbe più correttamente formulato dicendo: “Il tuo arbitrio finisce dove inizia il mio”. O anche: “Il tuo egoismo finisce dove inizia il mio”. O ancora: “Il tuo egoismo limita il mio egoismo”. Il puro arbitrio, che non è la Libertà ma il suo rovescio, è infatti la vita dell’egoismo. Trattandosi di egoismo, il principio ritorna allora ad avere la sua giusta logica, perché l’egoismo di un individuo è in perenne lotta con l’egoismo dell’altro, tenta di limitarlo per poter far valere il suo:
« Giacché il male distrugge anche se stesso. » (Aristotele, Etica Nicomachea)
È dunque nella natura dell’egoismo sopraffare l’altro: nello stesso ambito il tuo egoismo deve cessare perché possa iniziare ad affermarsi il mio. (Difatti, a chi fa valere il principio si può obbiettare lo stesso: “Se la tua libertà è limitata e lesa dalla mia, anche la mia è a questo punto limitata e lesa dalla tua”: vale a doppio senso, generando un’irrisolvibile impasse).
La Libertà è armonia, l’arbitrio disarmonia. La Libertà, come Assoluto che si relativizza, è armonia tra le Libertà morali individuali; l’arbitrio, come relativo che si assolutizza, è disarmonia tra gli immorali egoismi individuali. “La tua Libertà finisce dove inizia la mia” puzza dunque di paralogismo. Al sano senso logico, che è sano senso della Verità, risulterà ben distinta la nota di prevaricazione che esala. Chi sa immedesimarsi nello Spirito della Costituzione e dei Padri costituenti, vedrà dunque senza difficoltà che, se anche è stato scelto il nome di Libertà, il concetto di punizione rimanda invece a quello di arbitrio.
La Libertà è positiva, l’arbitrio negativo. Le limitazioni alla Libertà indicate nella Costituzione sono limitazioni dell’arbitrio, ovvero l’inattitudine alla Libertà. L’azione umana per quale è prevista una punizione (ad esempio il carcere che priva della libertà personale, art. 13 citato) non è mai una punizione della Libertà, ma dell’arbitrio. Chi commette il male – logicamente, psicologicamente, moralmente, filosoficamente, giuridicamente – non è infatti un uomo libero. (Il libero arbitrio è la possibilità del male, la Libertà l’azione giusta compiuta per Amore e verso il Bene). Dunque la pena è giuridicamente prevista per colui che è incapace di essere un uomo libero, ovvero per chi agisce mosso da egoismo.
Detto altrimenti: l’arbitrio è la perdita spirituale della Libertà a causa del prevalere della sua caricaturale ed egoistica contro-forza psicologica. La Costituzione, comminando la pena, si limita a riconoscere la Libertà perduta dal soggetto, la sua caduta spirituale, ratifica uno stato di fatto interiore. Così, anche la finalità della pena, ovvero la rieducazione del reo, lungi dall’essere mera punizione è invece riabilitazione del soggetto, di modo che egli possa allontanare per sempre da sé l’egoistica tentazione del puro arbitrio e ritornare invece ad agire tra gli uomini quale individuo spiritualmente libero.
28 febbraio 2025
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