Liberarsi dai tiranni e dai “mangia-popoli” con La Boétie

 

Come fanno i tiranni a prendere il potere? Perché molti popoli rinunciano volontariamente alla propria libertà per sottomettersi all'imperio dell'Uno? « Vorrei capire – dice Etienne de La Boétie – come sia possibile che tanti uomini, tanti paesi, tante città, tante nazioni, a volte sopportino un solo tiranno, che non ha altra potenza se non quella che essi gli concedono ». Con il nostro filosofo comprenderemo la genesi e la logica del potere tirannico.

 

di Salvatore Grandone

 

Francisco Goya, Il colosso, 1808
Francisco Goya, Il colosso, 1808

Etienne de la Boétie nasce a Sarlat nel 1530. La Francia sta per affrontare uno dei momenti più difficili della sua storia dopo la Guerra dei cent’anni. Nel regno si diffonde la Riforma e il lungo conflitto in Italia volge a favore della Spagna. In Aquitania soprattutto, la regione di La Boétie, il protestantesimo fa proseliti. Francesco I e successivamente Enrico II cercano di gestire la crisi economica e religiosa incrementando la venalità delle cariche e dei titoli nobiliari. L’obiettivo è duplice: da una parte costituire una nobilità di toga di origine borghese fedele alla corona, dall’altra ridare un po’ di fiato alle casse della monarchia dissanguate dalla fallimentare politica di potenza.

 

La Boétie appartiene a una di queste famiglie in rapida ascesa. Rimasto presto orfano, è affidato alle cure di uno zio prelato, che lo educa, introducendolo alla cultura classica e umanistico-rinascimentale. La Boétie studia Erodoto, Senofonte; traduce Plutarco; legge Machiavelli e Petrarca. Intorno ai sedici anni ha già maturato una cultura enciclopedica, sull’esempio dei grandi intellettuali del Rinascimento italiano.

 

Secondo Michel de Montaigne (1533-1592), filosofo e amico di La Boétie, è tra il 1546 e il 1548 – neanche diciottenne! – che il giovane di Sarlat scrive un testo destinato a un grande successo: il Discorso della servitù volontaria. Il Discorso è un gioiello di sagacia, di erudizione, di stile, ma in primis un lavoro filosofico che incarna il “perturbante” in senso freudiano. Non è questa la sede per ripercorrere le belle analisi di Freud sulla relazione Heimliche-Unheimliche (ossia familiare-perturbante, cfr. S. Freud, Il perturbante, 1919).

 

Preme solo sottolineare che l’attualità del Discorso della servitù volontaria è “perturbante” in virtù della sua familiarità. Il libello di un adolescente del Cinquecento parla di cose che risultano stranamente vicine. Passano i secoli e sembra ancora scritto per noi. Per questo il primo effetto che si prova nel leggerlo è una profonda sensazione di disagio. A volte verrebbe voglia di seguire il giudizio di Montaigne che, per prudenza, lo elogiava come un esercizio di retorica ben riuscito (di declamatio per la precisione).

 

Nel nostro caso sarebbe rassicurante pensare che un ragazzo del XVI secolo non abbia nulla da insegnarci. Potremmo riporre il Discorso nella libreria con la coscienza pulita di non aver commesso il delitto di lesa maestà di anacronismo, di essere stati “filologi”. Eppure, anche una rapida scorsa delle pagine del Discorso è sufficiente a iscrivere nella mente una serie di frasi che risuonano come tante sentenze o moniti per leggere il nostro presente. Forse, pur consapevoli di non dover peccare di eccesso di attualizzazione, è utile considerare il Discorso per quello che è: un classico che ha sempre qualcosa da dirci su quello che siamo, su quello che vogliamo.

 

Un paradosso

 

Francisco Goya, Saturno che divora i suoi figli, 1820-1823
Francisco Goya, Saturno che divora i suoi figli, 1820-1823

Il Discorso ruota intorno a una constatazione paradossale. La Boétie si chiede come sia possibile che tante nazioni, paesi e popoli si sottomettano ai tiranni. Per quale motivo gli uomini dovrebbero rinunciare alla libertà, al meraviglioso dono che la natura ci ha dato? Non basta dire che il tiranno può imporre il proprio potere con la forza, perché siamo noi stessi ad avergliela data. L’enigma resta e La Boétie incalza:

 

« Se due, se tre, se quattro uomini non si difendono contro uno è cosa strana, ma pur sempre possibile; si potrà ben dire, in questo caso, che si tratta di mancanza d’animo. Ma se cento, se mille ne sopportano uno solo, non si dirà forse che non vogliono, non certo che non osano prendersela con lui? Che non si tratta di codardia, ma piuttosto di spregio o disprezzo? E se si vedono non cento o mille uomini, ma cento paesi, mille città, un milione di uomini, dei quali il meglio trattato subisce il danno di essere servo e schiavo, non scagliarsi contro quell’uomo solo, come potremo mai chiamare questo? Vigliaccheria? » (Etienne de la Boétie, Discorso della servitù volontaria)

 

Il tiranno è l’Uno che domina il molteplice, una moltitudine di genti che potrebbe in qualsiasi momento privarlo del suo potere. Sarebbe sufficiente non obbedirgli più e il gioco è fatto: « se non gli si obbedisce […], non sono più nulla ». Il dominio del tiranno è un mistero, che non si può spiegare se non attraverso un artificio linguistico, un ossimoro: la servitù volontaria. Occorre ipotizzare che gli uomini si sottomettano volontariamente al tiranno.

 

Per La Boétie spiegare tale decisione non è semplice. A differenza di quanto sosterrà Thomas Hobbes (1588-1679), La Boétie non parla di uno stato di natura in cui la libertà sarebbe sinonimo di egoismo e di lotta di tutti contro tutti. Il pensiero di La Boétie non conosce ancora il contrattualismo; si limita a ipotizzare, prima dell’avvento della condizione di servitù, una situazione in cui « se noi vivessimo secondo i diritti che la natura ci ha dato e in base agli insegnamenti che ci ha impartito, saremmo naturalmente obbedienti ai genitori, soggetti alla ragione e servi di nessuno » (Ivi). Nulla di più e, soprattutto, nulla di meno.

 

L’uomo naturalmente libero non è un bruto, ma un individuo che obbedisce in maniera spontanea a chi lo ama e che coopera con gli altri per preservare la propria libertà. Infatti, la « natura non voleva tanto farci tutti uniti, ma tutti unici [tous uns] » (ivi). Non siamo uguali: alcuni sono più forti, altri più scaltri. Siamo però « tutti compagni » e solo collaborando possiamo restare liberi: senza fratellanza, senza amicizia non è possibile alcuna libertà. Siamo molto lontani non solo da quello che sosterrà nel secolo successivo Hobbes, ma anche dal Glaucone della Repubblica di Platone. L’uomo non è per natura un prevaricatore; a meno di non essere corrotto da un regime tirannico, non farebbe del male al suo prossimo neanche se avesse l’anello di Gige.

 

Se questa è la condizione in cui la natura ha posto gli uomini, il diffondersi di molteplici forme di tirannide desta sconcerto. Per La Boétie perfino la monarchia è una tirannide, che il re erediti il trono, che lo abbia preso con la forza o che sia stato eletto, cambia poco. Non vi è ragione valida che possa legittimare il dominio dell’Uno sui molti. Per spiegare la genesi di una tirannide si può solo ricorrere a considerazioni socio-psico-patologiche. L’attualità del pensiero di La Boétie consiste proprio nell’aver individuato quelle che oggi chiameremmo le patologie del sociale. Dalla lettura del Discorso si possono dedurre tre importanti fattori alla base della dominazione tirannica.

 

L'abitudine

 

George Grosz, Scena di strada, 1925
George Grosz, Scena di strada, 1925

Il primo elemento è “la coutume”. Il termine francese utilizzato da La Boétie è in genere reso con “abitudine”. Benché la traduzione sia corretta, il concetto di “coutume” ha una valenza semantica più ampia rispetto al nostro “abitudine”. Per La Boétie “la coutume” è infatti sia l’abitudine sia l’educazione. Il filosofo sostiene una tesi fondamentale per il suo ragionamento: in tutti gli uomini la natura ha immesso dei « semi di bene », che però sono « così fragili e minuti da non poter resistere al minimo impatto con un’educazione e un sentimento contrari » (ivi).

 

La natura predispone l’uomo ad essere libero e a obbedire alla ragione. Ma si tratta appunto di una “disposizione”, di un fragile seme di libertà, che se coltivato male può non sbocciare mai o svilupparsi in modo anomalo, dando origine a delle mostruosità. L’uomo nasce libero; eppure, se lo si abitua a servire, potrà giungere molto presto a dimenticare la sua condizione originaria. L’abitudine e l’educazione sono in grado di denaturare l’uomo, di creare in lui degli « innesti », che producono « frutti estranei » (ivi).

 

 “La coutume” altera l’anima, la svilisce, la abbassa. Ci si abitua a vivere in un eterno presente in cui si serve dimentichi di chi si era e di quello che si potrebbe essere. Si raggiunge una situazione di tale oblio di sé che « si direbbe che [l’uomo] non abbia perso la sua libertà, ma guadagnato la sua servitù » (ivi). L’abitudine non spiega da sola il dominio del tiranno. Giustifica l’adesione passiva all’Uno, non la partecipazione attiva. Per comprendere come sia possibile che tanti servano attivamente, è necessario esaminare altri due fattori.

 

La corruzione e il fascino dell’Uno

 

George Grosz, L’eclissi del sole, 1926
George Grosz, L’eclissi del sole, 1926

 

Il tiranno ha bisogno di “favoriti”, di persone che lo aiutino nel suo progetto di dominio sui molti. Per diventare il « fuoco » che « si propaga e si rafforza da una piccola scintilla », deve trovare legna da ardere. Il combustibile è fornito da quelli che diventeranno i suoi cortigiani. Il tiranno gioca sull’ambizione e sul desiderio di arricchirsi. Si crea così una mostruosa catena:

 

« Ci sono sempre stati cinque o sei a cui il tiranno prestava ascolto, perché si erano fatti avanti da sé, o perché era stato lui a chiamarli, per farne i complici delle sue crudeltà, i compagni dei suoi piaceri, i ruffiani delle sue voluttà, i soci nello spartirsi il frutto delle sue rapine. Quei sei consigliano talmente bene il capo che egli ora, grazie a questa loro intesa, deve essere malvagio non soltanto per via della propria malvagità, bensì anche per via della loro. Quei sei hanno poi sotto di loro seicento approfittatori, e questi seicento fanno ai sei quel che i sei fanno al tiranno. Questi seicento ne tengono poi sotto seimila, a cui hanno fatto fare carriera, affidandogli il governo delle province, o l’amministrazione della spesa pubblica, per avere mano libera, al momento opportuno, in avarizia e crudeltà, compiendo nefandezze tali da poter resistere soltanto nella loro ombra, riuscendo cioè solo grazie a costoro a sfuggire leggi e sentenze. Grande è poi la schiera che viene dopo, e chi volesse divertirsi a districare questa rete non ne vedrà seimila, bensì centomila, milioni, stare attaccati al tiranno con questa corda » (ivi).

 

Il tiranno corrompe ed è corrotto dai suoi accoliti. Si genera un’aberrante corda di tiranni e di tirannucoli, di cortigiani grandi e piccoli, di « mangia-popoli » (ivi) che personificano l’Uno in ogni luogo del paese. È interessante osservare che il processo di corruzione non consiste in una semplice assimilazione. Il tiranno non “estende” il suo corpo “ingurgitando” i suoi seguaci. Bisogna ragionare piuttosto nei termini di un virus, che infetta chi è vicino al tiranno rendendolo simile a lui, un po’ come nel film Matrix dove chiunque può diventare l’agente Smith! Afferma La Boétie:

 

« Dove mai prenderebbe i tanti occhi con cui vi spia, se non foste voi a fornirglieli? Come disporrebbe mai di tante mani per colpirvi, se non le prendesse da voi? E i piedi con cui calpesta le vostre città, dove mai li troverebbe, se non fossero i vostri? Come mai farebbe ad avere potere su di voi, se non gli provenisse da voi stessi? Come oserebbe mai attaccarvi, se non d’intesa con voi? Cosa potrebbe mai farvi, se voi non foste ricettatori del bandito che vi deruba, complici dell’assassino che vi uccide e traditori di voi stessi? » (Ivi).

 

Lo stuolo dei favoriti moltiplica il corpo del tiranno: come una cellula cancerogena il tiranno si riproduce, ammalando la società. Si potrebbe pensare che, più si è vicini al tiranno, più si tragga vantaggio in termini di ricchezza e di prestigio. Tuttavia La Boétie smonta questo luogo comune. In prima istanza nota come tutto ciò che elargisce il tiranno può essere ripreso in ogni momento. Quello che il tiranno ha usurpato una volta, può sottrarlo nuovamente. Del resto, è l’idea stesso del “dono” a trarre in inganno: quando il tiranno dà, non fa altro che restituire le briciole di quello che apparterebbe di diritto a ognuno. Inoltre, a differenza degli artigiani o dei contadini che, una volta servito il tiranno, « sono tranquilli » (ivi), lo stesso non può dirsi dei mangia-popoli:

 

« Il tiranno non perde mai di vista quanti gli stanno attorno, brigando e mendicando il proprio favore: non basta soltanto che facciano quel che dice, devono anche pensare quel che lui vuole e, spesso, per soddisfarlo, devono anche anticipare i suoi pensieri. Il loro compito non si esaurisce insomma nell’obbedirgli, devono anche compiacerlo; devono macerarsi, tormentarsi, ammazzarsi di lavoro per le sue faccende, per poi godere dei suoi piaceri, sacrificare il loro gusto al suo, forzare la loro indole, spogliarsi della propria natura. » (ivi)

 

Chi sta attorno al tiranno è servo sia nel corpo sia nell’anima. Deve pensare come il tiranno, anticipare i suoi desideri, deve compiacerlo, tormentarsi per lui. Avviene insomma un processo di imitazione che sfocia in un meccanismo di identificazione. D’altra parte i risultati di questa rinuncia a sé così profonda non garantiscono al favorito una nuova forma, per quanto mortifera, di tranquillità. Il tiranno continuerà a essere sospettoso di tutti, anche – forse sarebbe più corretto “a maggior ragione” – di quelli che gli sono più fedeli. La Boétie cita ad esempio i casi di Agrippina e di Messalina.

 

Inoltre i mangia-popoli sono anche i più esposti in caso di rivolte popolari. Infatti « del male di cui soffre, il popolo preferisce di norma accusare non il tiranno, ma i governanti » (ivi.). Sembra allora che i mangia-popoli non abbiano nulla da guadagnare dal tiranno. Le ricchezze e i privilegi concessi non sono stabili: il tiranno non pone in loro fiducia ed è pronto, quando meno se lo aspettano, a sostituirli con altri. Anche il favorito che mantiene la propria posizione durante una tirannide potrebbe perderla in quella successiva, come spesso avviene negli avvicendamenti al trono. Si è infine notato che i mangia-popoli sono spesso i bersagli delle rivolte popolari. Perché allora servono il tiranno? Bastano gli inganni e le ambizioni per giustificare una sottomissione così completa?

 

Qui entra in scena un ultimo fattore, che va letto tra le righe del Discorso: il fascino dell’Uno. Il tiranno « affascina e incanta » (ivi), induce in chi lo circonda il desiderio di identificazione. I favoriti – e in misura minore anche il popolo – vogliono essere come lui. Si illudono che agendo come l’Uno siano l’Uno. Ma non è così, e La Boétie lo esprime con efficacia con un’immagine ripresa da Petrarca: i mangia-popoli sono « come la farfalla che, sperando di trarne qualche piacere, poiché riluce, sperimenta l’altra virtù del fuoco, quella che brucia » (ivi). Il tiranno è un fuoco distruttore che tutto divora; chi gli è vicino è abbagliato dalla sua luce, soggiogato, al punto di gettarsi inconsapevolmente nelle braccia del carnefice.

 

Rompere le catene dalla servitù

 

Franz Marc, Tre cavalli rossi, 1911
Franz Marc, Tre cavalli rossi, 1911

Come uscire dalla condizione di servitù? La situazione descritta dal filosofo pare non lasciare via di scampo. Eppure, La Boétie insiste più volte su come un’inversione di rotta non sia affatto impossibile. Per spodestare un tiranno non bisogna compiere rivoluzioni violente, né ucciderlo. Basta “semplicemente” non obbedirgli più, cessare di fungere da combustibile. « Smettendo di gettarvi legna da ardere » (ivi), il tiranno si consumerà da sé.

 

L’autentica rivoluzione consiste allora nel cambiare se stessi, nel riuscire a contrastare le abitudini che impediscono di sentire la fiamma benefica della libertà. Il vero cambiamento nasce dal “no”, da quella resistenza alla dominazione che hanno messo in pratica figure come Gandhi. Se non si combatte il giogo interiore, quello che l’uomo stesso si impone nel sottomettersi al tiranno, ogni ribellione potrebbe risolversi nel mero avvicendamento di una nuova forma di tirannide.

 

In una società come la nostra, dove la tirannia sta assumendo volti molteplici – da quelli populisti a quelli social, a quelli economico-consumistici –, le riflessioni di La Boétie offrono allora ancora spunti per pensare la diagnosi e la cura dei mali del mondo postmoderno.

 

 

24 febbraio 2025

 








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