La Peinture du moi è un'impresa letteraria originalissima. Nei meandri impolverati del suo io, tra le pieghe nascoste della sua personalità, Montaigne porta ad espressione con spontaneità e umiltà i suoi vissuti e, raccontandoci di lui, parla anche di noi, disegnando un penetrante ritratto della forma generale dell'umanità. Del suo lavoro di scavo dell'esperienza concreta, rappresentato splendidamente dagli Essais, il presente lavoro intende mettere a fuoco il tema dell'amicizia.
di Giuseppe Montana
Nella vita di Montaigne la fremente amicizia con l'umanista Etienne de La Boetie fu da lui considerata il più grande dono del destino, un alcunché di benefico «che Dio concede all'umanità solo una volta ogni tre secoli» (M. Montaigne, Saggi).
Nel ventottesimo capitolo del I libro degli Essais, il ritratto dell'amico è infiorito da alti elogi insieme al profondo dolore per la sua prematura scomparsa. Prima di incontrarsi, i due avevano già in comune non solo l'appartenenza allo stesso ambiente sociale, ma anche un'affine sensibilità etico-politca che li affratella nell'aborrire la violenza feroce e generalizzata del tempo – quella della Conquista d'America al pari delle guerre di religione in Europa. Nella Francia del 500ʼ, squassata dai conflitti religiosi, il clima culturale era avvelenato dal sospetto e dalla paura di essere traditi. Ciò rendeva assai raro il poter riporre una fiducia incondizionata nel prossimo e acuiva negli animi più puri un profondo bisogno di amicizia. Il loro incontro, dunque, non fu affatto un evento fortuito:
« ci cercavamo ancor prima di esserci visti e per quel che sentivamo dire l'uno dell'altro. E al nostro primo incontro, che avvenne forse per caso [...], ci trovammo tanto uniti, conosciuti e legati l'uno all'altro. » (Ivi)
Il vero amico – ci confida Montaigne – è colui il quale non potevi non incontrare. Se «mi si chiede di dire perché l'amavo, sento che questo non si può esprimere che rispondendo: "perché era lui, perché ero io" – Par ce que c'estoit luy; par ce que c'estoit moy. » (Ivi)
Che il Nostro parli della conoscenza di La Boetie con gli accenti di un innamoramento, seppure inconsapevole e sottointeso, è probabile. Mentre è indubbia la percezione da parte del Perigordino della singolarità del loro legame: un legame così rassicurante da condurre le due anime a gettarsi nelle braccia l'una dell'altra, in balia entrambe di un affetto tanto ardente da scoprirsi l'una all'altra fin nel più profondo delle viscere:
« la sua volontà lo condusse a immergersi e perdersi nella mia, con ugual desideri, uguale slancio. Dico perdersi, in verità, poiché non ci riservammo niente che ci fosse proprio, né che fosse o suo o mio. » (Ivi)
Montaigne ci insegna che l'amicizia genuina e schietta è accompagnata dalla strana sensazione di conoscere l'altro prima ancora di conoscerlo, di vederlo ancor prima di incontrarlo, di avvertirne il piacevole richiamo ancor prima di esserci congedati da lui. La forza che ci unisce all'altro è così luminosa e rivelativa da consentirci di accedere al suo segreto, a sapere di lui ciò che lui non sa ancora di se stesso:
« Le nostre anime si sono scoperte con pari affetto l'una all'altra [...] che non solo io conoscevo la sua vita come la mia, ma di certo ne sapeva più lui di me che io stesso. » (Ivi)
Sebbene la volontà, i pensieri, i sentimenti fossero di fatto comuni tra loro da sembrare «un'anima in due corpi», i due amici cercavano di non confondersi l'uno con l'altro, ben consapevoli che al loro rapporto la distanza era necessaria quanto la prossimità. La loro relazione, lungi dallo scadere in uno stato fusionale o nella mera proiezione di fantasmi tra due soggettività estranee, si è piacevolmente attuata nel segno dell'identità dialettica, ossia come identità dell'identità e della non identità, in cui le differenze sono tosto salvaguardate e lasciate accadere. Simpatia, umiltà e verità intramavano melodiosamente e ritmicamente i loro incontri: le prime due costituivano la fenditura, il varco per accedere all'alteritas dell'altro; la terza, invece, si traduceva nella privilegiata visione dell'imprevisto, dell'inatteso che l'altro può rappresentare allorché ha la libertà di esprimersi in tutte le sue sfumature, in tutti i suoi limiti e difetti che plasmano invero la sua irripetibile atipicità. Oltre a ciò, la totale assenza di invidia, qualità decisiva in ogni amicizia duratura, impediva che gli aspetti di diversità tra Montaigne e La Boetie irrigidissero il loro rapporto, mantenendolo in una splendida fluidità in cui prendeva forma l'invincibile afflato delle affinità elettive.
Il loro speciale incontro non è di certo paragonabile alla passione amorosa, il cui fuoco cocente e intenso è tuttavia volubile, ondeggiante e vario: un fuoco febbrile fatto di eccessi e pause. La forza che li lega è al contrario temperata e uguale, costante e calma, priva di asprezze e idiosincrasie. Entrambi trovano se stessi accogliendo dolcemente lo sguardo dell'altro su di sé – scoprendo sé nell'altro e l'altro in sé – e alimentando un'intesa dialogica in cui l'ipseità germina poieticamente dal loro chiasmatico incontro:
« L'amitié consiste précisément à faire des versions, à traduire autrui en soi, soi en lui. » (Ivi)
La vera amicizia, pertanto, nasce e non può morire. Questo Montaigne lo sa. Ecco perché una volta esperito il doloroso lutto per la perdita dell'insostituibile amico, continua fiducioso a invocarne la presenza: una presenza che parla senza far rumore; una presenza che accompagna silenziosamente i suoi gesti e i suoi pensieri:
« Di ogni cosa facevamo a metà. Ero abituato ad essere in due dappertutto. Da quando lo persi non faccio che trascinarmi languente. Non c'è azione o pensiero di cui non senta la sua mancanza come egli avrebbe sentito la mia. [...] Eppure la nostra amicizia dura ancora. » (Ivi)
Di fronte al sacro valore dell'amicizia, che oggi sembra baumanamente liquefarsi, la felice visione di Montaigne a riguardo rappresenta il nostro migliore avvenire, il nostro compito ancora incompiuto. Il Perigordino infatti non fu solo un grande pensatore per aver dato vita, scrivendo, ad un pubblico che ancora non c'era, ossia ad una comunità esterna alle professioni ed ai canali di comunicazione istituiti dal cristianesimo, ma anche e soprattutto per aver difeso con audacia i valori indistruttibili dell'amicizia, della tolleranza senza dogma, dell'apertura all'altro, del cosmopolitismo, della solidarietà verso la vità debole e sofferente, del rispetto della natura e degli animali. Questa fu, e continua ad essere, la saggezza come "mestiere di vivere". Una saggezza, lo sottoliniamo, strutturantesi su due paralleli e comunicanti imperativi, che bastano a mantenere l'esistenza individuale e sociale nell'orizzonte aperto del senso. Il primo imperativo è il «dovere incondizionato dell'autenticità verso se stessi» che esige la libera decisione di attuare i progetti che sentiamo davvero nostri, riconoscendo e accettando le contraddizioni che popolano il nostro io, senza per questo assecondarle interamente, bensì ritoccando attraverso «scivolamenti flessibili» i lati carenti della nostra personalità. Il secondo convergente imperativo è il «dovere di prendersi cura dell'Altro» che intima all'assunzione di responsabilità nei confronti principalmente di coloro che soffrono sotto i gioghi imposti dai costumi, dai dispositivi manipolativi, dalle credenze ideologiche e dalle logiche impersonali e violente dell'esclusione.
24 febbraio 2025