Mentre Trump cerca di inghiottire la Groenlandia, calpestare l'Europa e avviare una pulizia etnica a Gaza, è sempre ammirevole l'impegno della stampa mainstream per ricordarci quale sia, nonostante tutto, il vero nemico. Con l'Incursione di oggi esploriamo i meandri della sinofobia occidentale attraverso un caso concreto: una storia di orientalismo, militarismo e candeline di compleanno esplosive, alla scoperta dell'immagine della Cina di cui l'Occidente è da sempre innamorato.
di Michele Rossi
La "sindrome cinese" era la paura che un reattore nucleare fuso potesse scavare un solco che attraversasse il pianeta come i bruchi nelle mele, creando un tunnel diretto con la Cina Comunista. L'espressione, per quanto colorita, ha sempre contenuto qualcosa di assurdo, come l'aggettivo "cinese" applicato a una sindrome da panico squisitamente occidentale. E se la paura del bruco planetario è svanita insieme alla Cortina di Ferro, la sindrome cinese può essere ancora utile per definire le psicosi di certa stampa nostrana.
Recentemente, ad esempio, si è diffusa una notizia allarmante: Pechino si sta preparando a una guerra atomica. Non bastano le minacce e i dazi di Trump, il pantano ucraino, Israele che non rispetta manco un giorno di tregua sul suolo palestinese. A fare impazzire la maionese di un sistema-mondo sempre più in fermento ci si mette anche la Repubblica Popolare Cinese, per giunta comunista!
La notizia era già apparsa qualche mese fa sul Giornale, ma pochi giorni orsono sembra aver bucato persino la newsletter del Corriere della Sera.
A quanto pare, nei dintorni di Pechino, sono in corso opere massicce e lavori su larga scala per la creazione di una base militare sotterranea. La cosa, ci mancherebbe, suscita sorpresa alla testata nostrana, visto che la Cina è «alle prese dal 2020 con una grave crisi del settore immobiliare che ha fatto crollare il mercato del mattone deprimendo l’economia».
Le ruspe del regime, che evidentemente ignorano le crisi immobiliari, sono all’opera da mesi, e «nella zona del mega-cantiere ci sono scavi in profondità che sembrano destinati a ospitare grandi bunker per la protezione dei vertici militari della Repubblica popolare cinese durante un conflitto, inclusa una guerra nucleare».
Il messaggio implicito è cristallino come un lago di montagna: i cinesi si stanno preparando a una guerra, quindi sono senz’altro intenzionati a cominciarla; perciò noi, i nemici delle dittature e dei totalitarismi, dobbiamo avere paura.
La prima notizia su questa notizia è che non dovrebbe essere una notizia: ogni paese sovrano può fare ciò che lo aggrada nel proprio territorio. Il fatto che la Cina stia costruendo un enorme scantinato militare in casa propria dovrebbe essere banale, anzi stupirebbe il contrario: ogni stato al mondo ha le proprie basi, più o meno segrete, e non si capisce dove stia lo scandalo, visto che Pechino è il centro nevralgico di un Paese da un miliardo e mezzo di persone, peraltro corrispondente alla principale potenza economica mondiale. Dovremmo davvero credere che le élite comuniste cinesi non pensino alla propria sicurezza in caso di guerra nucleare?
Si scorge, come spesso accade, un certo pregiudizio occidentalista (alcuni direbbero suprematista) che vede i popoli asiatici inferiori e stupidi; e di fronte a uno stupido, anche il classico piatto di minestra diventa pietanza inaspettata e ricercata: loro non sono furbi come noi; quindi, come diavolo gli è venuto in mente di preoccuparsi della propria sicurezza?
Ovviamente, spiega la newsletter, questa strana fissazione per l’incolumità dei vertici nazionali arriva dritta dritta dalla Guerra Fredda: in particolare tra gli anni Cinquanta e Settanta, quando «Mao Zedong aveva fatto scavare sotto i palazzi di Pechino almeno seimila rifugi antiaerei» poiché, come ricorda il quotidiano, «in quei tempi il governo comunista temeva un attacco degli imperialisti americani». Viene da domandarsi da dove arrivi questo timore, visto che, escludendo la sanguinosissima invasione americana del Vietnam, l’area in quel periodo era decisamente tranquilla e pacifica.
Resta da capire quanto gli incessanti bombardamenti statunitensi su un paese confinante impegnato nella lotta per l’indipendenza coloniale siano considerati, dai nostri esperti opinionisti, una preoccupazione sufficiente per la propria o altrui incolumità.
Ma ecco arrivare, puntuale come le denunce dopo una trasmissione di Corona, l’obiezione intellettuale: il problema non è tanto che la Cina stia costruendo una struttura simile, ma il messaggio minaccioso che così facendo manda al resto del mondo. Insomma, va benissimo che i cinesi si facciano le basi a casa loro, ma devono proprio essere così smaccatamente enormi? Forse certi intellettuali s'immaginano la "distensione internazionale" come una pièce in cui il Sud del mondo cammini dietro le quinte e in punta di piedi, con strutture militari piccole e discrete; perché altrimenti, signora mia, come potremo noi occidentali sentirci al sicuro?
La contro-obiezione di Pechino sarebbe fin troppo facile: con che faccia i media occidentali riportano preoccupati la notizia di una base militare cinese in Cina, senza spendere litri e litri di inchiostro per parlare delle decine (se non centinaia) di basi statunitensi nei paesi europei? Se una singola base alle porte di Pechino lancia segnali minacciosi verso il resto del mondo, che tipo di segnali mandano le strutture militari che riempiono il Vecchio Continente? Sembra che le strutture belliche sul suolo delle potenze emergenti siano come gli spinelli: c’è una quantità lecita, ammessa per esclusivo uso personale, che però non può andare oltre quel limite che turba le sensibilità occidentali.
“Insomma, però, non confondiamo le mele con le pere – risponde l’opinionista su X – le basi americane in Europa sono frutto di un’esigenza storica: la difesa contro il Patto di Varsavia!”
Sia pure, ma allora che dire delle basi nuove di zecca che gli Stati Uniti stanno costruendo nelle Filippine e a ridosso del Mar Cinese Meridionale e Formosa? Anche quelle sono a scopo difensivo? Non rischiano forse di “lanciare segnali minacciosi” che minino la distensione in quell’area?
A queste critiche, però, la propaganda occidentale contrappone una tesi prevedibile, diventata nell'ultimo lustro quasi un mantra: le basi americane che si diffondono a macchia d’olio in quell’area sono indispensabili per fronteggiare un pericolo concreto e annunciato: l’invasione di Taiwan nel 2027. La teoria dell’occupazione tra due anni spaccati è ovviamente basata su dichiarazioni corroborate super-partes, ipotizzata nientemeno che «da politici di Washington e ufficiali del Pentagono», ma vale forse la pena di seguirne lo svolgimento, se non altro per vedere quant'è profonda la tana della sindrome cinese contemporanea.
L’idea è questa: Taiwan vuole l’indipendenza, la Repubblica Popolare Cinese è incazzatissima perché non l’accettano. Ergo, Pechino vuole passare all’azione e invadere l’isola, ma vuole farlo con stile. Nel 2027 si celebra, infatti, l’anniversario delle forze armate cinesi; quale occasione migliore per mostrare i muscoli al resto del Mondo e invadere un baluardo della democrazia occidentale come Taiwan?
Tralasciando il fatto che l’invasione cinese di Taiwan è impossibile al pari dell’invasione italiana della Sardegna, visto che il diritto internazionale riconosce l’appartenenza di Formosa alla Repubblica Popolare Cinese da cinquant’anni, possiamo concentrarci sul sottotesto: noi occidentali, che la guerra la sappiamo fare bene, ragioniamo in termini tattici o strategici; a loro, invece, essendo orientali schiavi di un regime comunista e sanguinario, interessa solo flexare. L’occupazione di Taiwan non sarebbe il risultato di un piano militare coordinato (che potrebbe avvenire domani, nel 2027, o mai) ma solo una pagliacciata al fine di accendere una candelina in più sulla torta di compleanno delle forze armate.
La sindrome cinese raggiunge il suo apice in questo quadretto macchiettistico, con l'occupazione di un'isola programmata con il countdown, in modo che tutti i nemici della Cina sappiano esattamente il giorno e l'ora dell'attacco con due anni di anticipo. Una strategia militare, qualora esistesse, degna di un film di Woody Allen, che se non verrà portata avanti (si affretta a specificare l'articolo) è solo perché «Xi Jinping sa bene che le sue forze non sarebbero operativamente pronte a tentare l’occupazione dell’isola e che un tentativo di sbarco scatenerebbe la reazione degli Stati Uniti». Eccoci arrivati alla quadratura del cerchio: la Cina è pericolosa, armata fino ai denti, pronta a invadere il "mondo libero", ma non è nemmeno in grado di difendere i propri confini da ingerenze esterne. I cinesi o sono stupidi o sono incapaci, e il fatto che né l'una né l'altra cosa potrebbe contribuire a renderli pericolosi non è nemmeno considerato dalle mirabolanti narrazioni filo-occidentali.
Forse, senza scomodare la psicanalisi, queste storielle sono solo spie di una crisi più profonda, una proiezione con la quale l'Occidente e le sue élite mediatiche trasferiscono le loro paure su un mostro esterno, lontano e per questo necessariamente minaccioso e farsesco. La Cina è vicina, ma forse non abbastanza per farci i conti in prima persona. Almeno fino a quando un tunnel scavato nelle viscere della Terra ci permetta di sbucare a Pechino, possibilmente in uno scantinato qualsiasi di un operaio qualsiasi che possa condividere, senza i filtri della nostra propaganda, il proprio punto di vista.
12 febbraio 2025
DELLO STESSO AUTORE
Il mio regno per un bidet! Inferiori e pure ingrati! Bestie in casa Liberi, oltre gli svarioni Fallout: da videogioco a critica sociale Il gioco delle tre boe
SULLO STESSO TEMA
R. Sasso, Crisi e fine del capitalismo