Non c’è dubbio: Rousseau fu l’autore più letto del Settecento, ma anche quello che suscitò il maggior dibattito e che attirò le critiche più feroci. Nel 1755 dopo aver letto il suo Discorso sull'origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini, Voltaire lo accusò di «voler riportare gli uomini a camminare a quattro zampe» mentre Diderot lo definì un “malvagio eremita". Ma quali erano i motivi di quel dibattito e di che cosa era accusato esattamente Rousseau?
di Francesco Giosuè
Nato a Ginevra nel 1712, quando fu pubblicato il Discorso Rousseau era già conosciuto per aver scritto diversi articoli dell’Encyclopédie, ma ancor più per aver vinto cinque anni prima il concorso bandito dall’Accademia di Digione che chiedeva di rispondere alla domanda se il progresso delle scienze e delle arti – il progresso tecnologico diremmo oggi – migliorasse i costumi umani. Fu allora che Rousseau scrisse il Discorso sulle scienze e le arti in cui, contro le aspettative di un pubblico convinto dell’equivalenza tra progresso e miglioramento della vita umana, rispose negativamente suscitando un gran clamore.
« Il bisogno elevò i troni; le scienze e le arti li hanno rafforzati [...] e così oggi abbiamo fisici, geometri, chimici, astronomi, poeti, musicisti e pittori ma non abbiamo più cittadini. »
Interrogandosi sugli aspetti che rendono felice e giusta una società, Rousseau rigettava l’idea che il progresso potesse essere neutro e necessariamente positivo, chiarendo come questo possa alienare l’uomo e soprattutto dare origine a forme inedite di dominio.
Sin da principio, dunque, quella di Rousseau fu una filosofia dello smascheramento ideologico, tanto che l’idea dello stato di natura descritto da Hobbes come una guerra di tutti contro tutti, gli sembrava semplicemente dare legittimità alle gerarchie esistenti senza porre in questione la realtà. Se per Hobbes anche il peggiore arbitrio era meglio della paura di venire uccisi in qualsiasi momento, ecco allora che la divisione tra dominanti e dominati diventava accettabile. Tuttavia, tale stato appariva a Rousseau come la replicazione in malafede di alcuni caratteri propri all’uomo civilizzato, come la violenza, e allo stesso modo gli appariva ideologico Locke per aver dedotto l’esistenza di alcuni diritti, in particolare quello di proprietà, da uno stato di natura in cui l’uomo è titolare solamente del diritto alla libertà e alla vita. Al contrario, secondo Rousseau, nello stato di natura, espediente teorico formidabile, l’uomo vive isolato dai propri simili, non è né buono né cattivo in quanto bontà e cattiveria presuppongono l’esistenza di una coscienza che ancora non ha. Ma dato che l’uomo non è un animale, bensì un essere perfettibile, quando arriva alla consapevolezza che «dove non c’è società, non può esserci né giustizia né clemenza, né umanità né generosità», ecco che decide di stringere un patto il quale, a differenza di quelli presentati, gli permetterà di continuare a godere della propria libertà. Sottomettendosi a nessun altro se non a sé stesso, ciascun contraente deve alienare in favore di un nuovo corpo politico tutti i propri diritti, ed è così che l’uomo diventa tale solo riconoscendosi negli altri. Ora, Rousseau era consapevole del proprio tempo, sapeva di vivere in una società gerarchica all’insegna del privilegio, ed il Contratto sociale rappresentò uno degli auspici più incisivi verso un cambiamento. Tuttavia, se ci concentriamo sul Discorso sulle scienze e le arti, l’idea per cui se l’uomo non accetterà la propria libertà quale corollario della sua stessa vita, vi saranno sempre dei tiranni, forse diversi qualitativamente, ma identici nella volontà di affermarsi e di sfruttare gli altri a loro vantaggio, è già ben presente. Ai suoi occhi, infatti, le scienze e le arti, sono come le ombre proiettate nella caverna platonica, illusioni utili a farci credere di avere qualche potere, di essere migliori di quanto non fossimo nel passato, in altri termini, sono dei costrutti psicologici utili a farci sentire sicuri fintanto che non scopriamo cosa nascondono: «Scienze, lettere e arti cercano di nascondere le catene sotto ghirlande di fiori». Pertanto se le ragioni per un contratto sociale gli erano apparse falsate, allo stesso modo gli apparivano i presupposti dello sviluppo tecnologico. Ciò non toglie però che il suo obiettivo non fosse semplicemente demonizzare il progresso, bensì sottolineare come esso sia spesso al servizio di un potere che se ne serve per la propria conservazione, e per questo occorre costantemente interrogarsi sui suoi fini ultimi e ancor più sui suoi usi. Per il filosofo, infatti, i rischi di uno sviluppo tecnologico scollegato da qualsiasi riflessione critica in merito ai suoi obiettivi e soprattutto alle sue implicazioni sociali avrebbe dato origine a una tirannia che, non solo sarebbe andata a mero vantaggio di una nuova casta, ma avrebbe anche condotto ad uno Stato in cui «ciascun uomo vale solo nella misura in cui consuma», monito più recentemente ribadito dal sociologo Zygmunt Bauman nel saggio Consumo, dunque sono. Ed è forse questo il senso della riflessione di Rousseau che oggi occorre maggiormente considerare. Pensando a una società più giusta e più equa, una società all’insegna del legame uomo-cittadino, ciò che più inquietava il filosofo era che le scienze e le arti artificializzassero totalmente la vita umana, privandoci della spontaneità e della pietà, unici caratteri veramente “naturali”. Se delegassimo ad altri la nostra libertà - cioè la nostra vita - , sosteneva Rousseau, ci renderemmo degli “schiavi felici”, solo apparentemente virtuosi, ma di un conformismo, «vile e ingannevole, di una uniformità tale che tutti gli spiriti sembrerebbero usciti dallo stesso stampo».
Ora, se è chiaro come il conformismo, l’alienazione, la delega incondizionata e l’incapacità di comprendere l’altro siano i presupposti delle peggiori tirannidi, ciò che oggi sembra mancare è un vero dibattito circa i mezzi ed i fini del progresso. E la cosa è tanto più grave se si considera la pervasività degli strumenti di controllo sociale ed il loro legame con il produttivismo ed il consumismo più sfrenato, nonché con le quanto mai ideologiche idee di efficienza e di sicurezza. Interrogarsi sui fini e i mezzi del progresso significa riconoscere i suoi rischi evitando di cadere nella trappola dell’inevitabilismo che considera tale processo come automatico, svincolato da qualsiasi morale e controllo e in generale orientato al bene. Si tratta di riconoscere che la tecnologia è sempre espressione di interessi e che, ad esempio, molti degli elementi della transizione “smart” aprono a scenari quanto mai inquietanti. Se questo termine è generalmente usato per descrivere uno sviluppo interconnesso “intelligente”, cioè sicuro ed efficiente, dobbiamo anche considerare come già prima del 7 ottobre Israele avesse installato in Cisgiordania telecamere collegate a sistemi d’arma guidati dall’intelligenza artificiale, aspetto che unito alla fitta rete di telecamere utili al riconoscimento facciale e all’elaborazionedi algoritmi per la schedatura di eventuali “minacce”, ha portato Amnesty International a parlare di una inedita “apartheid automatizzata”. Il miglioramento della qualità della vita prospettato dalle grandi corporation della comunicazione deve dunque essere analizzato in tutti i suoi esiti. Infatti, se è noto quanto avviene nella tecnocratica Singapore o in Cina dove vengono applicati dei qr code di monitoraggio sulle porte degli eventuali dissidenti politici Uiguri, passa invece in secondo piano come queste pratiche siano nate e operino nello stesso occidente. Risale a pochi mesi fa l’inchiesta condotta da Disclose che ha fatto emergere come la Francia utilizzasse almeno dal 2015 il sistema di videosorveglianza algoritmica Briefcam, azienda israeliana legata a Canon, per la raccolta di informazioni sui cittadini, la loro schedatura e profilassi, mitragliatrice a parte. Inoltre, ciò che il dibattito pubblico non affronta è la natura profondamente impolitica di quello sviluppo che la sociologa di Harvard Shoshana Zuboff ha definito “capitalismo della sorveglianza”.
Ed è qui che Rousseau torna nuovamente. Se abbiamo detto di come per il filosofo l’uomo si realizzi solo nella società, e se la cifra distintiva dell’Illuminismo fu quella di affermare l’autonoma capacità di ciascuno di determinarsi, primariamente a livello politico, ecco allora che una delle ultime decisioni prese da Meta: quella di limitare senza il consenso degli utenti qualsiasi contenuto di natura politica dai loro social, si profila come una vera minaccia. Giustificata dalla volontà di «fornire agli utenti un maggiore controllo sulla loro esperienza sui social migliorandone la qualità dei contenuti», tale scelta non è stata compresa nella sua portata nemmeno da alcuni commentatori. Secondo il giornalista del The Atlantic Charlie Warzel, Meta non è stata capace di definire cosa sia un “contenuto politico”, quando più probabilmente non ha voluto. L’azienda, infatti, così come tutte le multinazionali della comunicazione considera la politica come il principale ostacolo alla propria crescita traendo vantaggio proprio dall’assenza di un quadro normativo aggiornato. Gli attacchi di Elon Musk all’Unione Europea, definita recentemente un “monumento alla burocrazia”, vanno nella stessa direzione; motivati dal fatto che l’ordinamento UE contempla diversi leggi sulla privacy, così come una prima regolamentazione dell’AI.
Tuttavia, ciò che distingue la nostra epoca da quella Rousseau o semplicemente da pochi decenni fa è il fatto che oggi le minacce alla libertà non provengono più solo dallo Stato, bensì anche da un insieme di privati i cui capitali e le cui capacità espansive non hanno precedenti. Ciononostante, affermando che le tecniche sono apparentemente “meno dispotiche” delle leggi e dei governi e proprio per questo sono più potenti, in quanto «rendendo amate le catene imposte dai secondi», Rousseau scorse prima di altri gli sviluppi illiberali e monopolisti che costituiscono l’essenza attuale dello sviluppo tecnologico. Ma vi sono anche altri due elementi del pensiero di questo filosofo che ci aiutano a mettere a fuoco la natura della nostra società. Di fronte a una realtà quanto mai disgregata e atomica cui è costantemente offerta la possibilità di una “connessione perenne”, Rousseau ritorna in quanto per lui la vera differenza tra lo stato di natura e lo stato civile era dettata proprio dalla connessione. Se nello stato di natura gli uomini vivevano isolati gli uni dagli altri, connettendosi ascendevano allo stato civile e quindi alla libertà. La connessione di cui parla Rousseau è però il contrario di quella unidirezionale, obliqua e asimmetrica oggi dominante: essa è intima e reale, fonda lo spazio pubblico e ci svela molto della natura privata di una connessione sfruttata per fini economici (rivendita dei dati) e di controllo. Inoltre, sempre considerando lo scarso grado di coesione sociale e le sempre più crescenti diseguaglianze, ci appare quanto mai importante la distinzione tra amore di sé e amor proprio di cui ha parlato Rousseau. Il primo costituisce una naturale volontà di conservare noi stessi, che attraverso il sentimento della pietà cerchiamo di estendere ai nostri simili. L’amor proprio è invece descritto come una brama tipica dell’uomo civile che punta a realizzarsi attraverso e a scapito degli altri. Alla luce di tutto ciò che si è detto possiamo quindi considerare i nuovi rischi cui andrà incontro la democrazia quando tra poche settimane Elon Musk guiderà il nuovo Dipartimento dell’efficienza, i cui risultati smaglianti verranno con tutta probabilità messi in risalto sulle pagine del collega Bezos, proprietario del The Washington Post. E allora, di fronte a un’inedita alleanza di capitali che si fanno Stato, occorre ripensare a Rousseau, tra i maggiori critici delle asimmetrie di potere. In molti si sono soffermati sul suo tono moralizzatore, sul suo utopismo e in fin dei conti anche sul suo conservatorismo, ma Rousseau non fu tutto ciò. Non fu nemmeno un banale nemico del progresso o un austero apostolo delle antiche città-stato, bensì fu il più lucido critico di quegli sviluppi inquietanti del progresso che Freud chiamerà “disagio nella civiltà”. Oltre a costituire uno dei più magnifici appelli all’etica della responsabilità, Rousseau fu il primo a scrivere di come uno sviluppo tecnologico scollegato dai fini ultimi del vivere associato, cioè dalla felicità generale, agevoli il conformismo per poi ergersi a nuova forma di dominio e quindi di oppressione.
3 febbraio 2025
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