Definire Parmenide il padre dell’ontologia sembra scontato. I frammenti del poema Sulla Natura a noi pervenuti parlano soprattutto dell’essere, dei suoi caratteri e della sua relazione con il dire e il pensare. È noto però agli studiosi quanto i primi pensatori del mondo antico non ragionino in base alle nostre categorie né abbiano ancora effettuato la distinzione tra le diverse regioni della filosofia (metafisica, etica, estetica, ecc.). Confinare il pensiero di Parmenide nel puro bios theoretikos appare allora una scelta dettata più da una consuetudine della critica che da un vincolo ermeneutico incontestabile. Sulla scorta di filosofi come Clément Rosset e dell’orizzonte storiografico tracciato dagli studi di Pierre Hadot si cercherà di liberare una dimensione più latente, terapeutica, dell’eleatismo.
Il pensiero di Parmenide costituisce da sempre per filosofi e studiosi una sfida. I frammenti a noi pervenuti del poema Sulla natura sono un condensato di immagini e di concetti difficile da districare. Mythos e logos ancora si intrecciano al punto che è non è chiaro dove finisca l’uno e cominci l’altro. Ma il problema più grande – che accomuna un po’ tutti i “primi” pensatori – è che chiunque si avvicini a Parmenide è coinvolto nella questione dell’“inizio”. Il filosofo di Elea è uno dei padri, se non il “padre” del pensiero occidentale, e sono i grandi Platone e Aristotele a inaugurare questo modo di vedere.
Tuttavia collocare Parmenide all’“inizio” significa posizionarlo all’interno di un percorso ben preciso. L’“inizio” è infatti il cominciamento di una traiettoria che riduce il campo del possibile, che esclude e spesso ignora quanto potrebbe trovarsi altrove. Certo, ogni atto di lettura implica un tra-dimento, un dire altrimenti insito nel tra-durre.
Eppure, quando ci si attarda troppo sul sentiero battuto, può essere utile praticare l’“epochè”, per verificare se qualcosa sia sfuggito, se magari, pur non allontanandosi dalla strada maestra, sia possibile incamminarsi su qualche via laterale ben visibile, che per pigrizia o per abitudine non si indaga. Le resistenze a questo tipo di esplorazioni sono innegabili.
Sembra fuori discussione che Parmenide sia il “padre” dell’ontologia. Non è il filosofo di cui tutti ricordano, fin dai tempi del liceo, la celebre affermazione « l’essere è, mentre il nulla non è » (Parmenide, Poema sulla Natura, a cura di G. Cerri, fr. 6)? L’inizio che è Parmenide non coincide con quello della storia dell’essere? Questo dato storiografico è considerato un’evidenza.
D’altra parte, sono tanti i filosofi e critici – si pensi ad esempio a Pierre Hadot, a Michel Foucault o a Peter Sloterdijk – che hanno contestato la tesi che la storia della filosofia si risolva nella storia della metafisica. Non perché l’alternativa più al passo coi tempi sarebbe la filosofia analitica, quanto per recuperare la valenza antropotecnica del filosofare che attraversa come un filone aurifero il pensiero occidentale. Se già nei filosofi ionici, e ancor più in Pitagora (cfr. C. Riedweg, Pitagora: vita, dottrina, influenza), l’attività filosofica non è associata solo alla ricerca delle cause, ma anche della saggezza, se, fin da Talete, il filosofo è una figura a cavallo tra “savant”, saggio, medico, guru e legislatore, allora perché escludere dal pensiero di Parmenide la componente “ascetica”, ossia la dimensione dell’esercizio?
Sulla scorta di alcune recenti letture del pensiero di Parmenide e su esperimenti analoghi proposti su Gazzetta filosofica, si avanzerà una lettura in chiave “terapeutica” del filosofo di Elea. Le questioni dell’essere e del nulla saranno rilette come due atteggiamenti nei confronti dell’esistenza e si seguirà lo schema già collaudato: sintomatologia, diagnosi ed eziologia, terapia.
Sintomatologia: il sentimento del nulla
L’esistenza umana appare circondata dal nulla. Tutto viene dal nulla e sprofonda nel nulla; tutto è effimero, caduco. Il nulla è una presenza che incombe su tutte le cose; una presenza che le minaccia dall’esterno e dall’interno: le cose sono esposte agli accadimenti che potrebbero annientarle e alla corruzione che le deteriora inesorabilmente fino a farle sparire. « Le cose – direbbe Leopardi – non hanno né spirito né corpo, ma son tutte vane e senza sostanza » (G. Leopardi, Zibaldone, a cura di F. Cacciapuoti).
Il nulla ci riguarda in prima persona. Come recita il coro dell’Oreste di Euripide: «O lacrimevoli, molto straziate stirpi degli effimeri, guardate il destino, come avanza contro ogni attesa. Uno dopo l'altro hanno il proprio turno di strazio, sempre diverso, nel lungo volgere del tempo » (Euripide, Oreste, in Id., Le tragedie, a cura di A. Tonelli).
L’angoscia di fronte al nulla è legata in particolare alla morte, a quella possibilità estrema che fonda ogni altra possibilità e che, ad un tempo, ci consegna alla nostra intrinseca finitezza. Dalla morte, osserva Vladimir Jankélévitch:
« Io sono braccato. In prima persona, la morte è un mistero che mi concerne intimamente e nel mio tutto, vale a dire nel mio nulla (se è vero che il nulla è il nulla di questo tutto): io vi aderisco strettamente, senza poter mantenere le distanze rispetto al problema. […] È di me che si tratta, me che la morte chiama personalmente col mio nome, me che si addita e si tira per la manica, senza lasciarmi il piacere di sbirciare verso il vicino; le scappatoie ormai mi sono precluse tanto quanto i rinvii; gli aggiornamenti a più tardi, così come gli alibi […] sono divenuti impossibili. […] Nulla per me? Ma è proprio il contrario! Questo nulla è tutto per noi; in altre parole, è il nostro tutto-o-nulla a essere in questione » (V. Jankélévitch, tr. it. V. Zini, La morte)
Jankélévitch contesta la tesi di Epicuro che la morte sia nulla per noi: proprio perché ci riguarda in prima persona la morte è un nulla che è tutto per noi. Anche nell’ipotesi che sia impossibile pensare il nulla – del resto sono ben pochi i filosofi occidentali che hanno su questo contraddetto Parmenide –, il nulla è sentito, è un sentimento che accompagna l’uomo. Questo sentimento si nutre anche dei desideri:
« Ogni desiderio – insegna Schopenhauer – [ha] origine da un bisogno, da una mancanza, da una sofferenza, e […] perciò ogni appagamento è soltanto un dolore eliminato, non una felicità positiva apportata; […] le gioie mentono al desiderio, affermando di essere un bene positivo, mentre in verità hanno una natura soltanto negativa e non sono altro che la fine di un male » (A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, a cura di G. C. Giani)
Molti desideri nascono dalla mancanza, da un nulla che si vuole colmare, che con la sua presenza è vissuto come una ferita nella carne. Si pensi all’affaccendarsi dell’uomo per raggiungere una pienezza d’essere che resta sempre fuori portata. Si rifletta anche sul vissuto del lutto: l’assenza lacera con il suo “mai più” tutti i luoghi e le cose su cui prima si posava l’essere-là della persona amata. Ma il sentimento del nulla non abita solo la dimensione mondana e più intima della nostra esistenza. Almeno a partire da Nietzsche si è evidenziato come la società contemporanea sia attraversata dal nichilismo. Afferma Nietzsche:
« Il nichilismo appare ora non perché il disgusto per l’esistenza sia maggiore di prima, ma perché si è diventati riluttanti a vedere un “senso” nel male e nell’esistenza stessa. Una interpretazione è tramontata; ma poiché vigeva come la interpretazione, sembra che l’esistenza non abbia alcun senso, che tutto sia invano. » (F. Nietzsche, Il nichilismo europeo. Frammenti di Lenzerheide, a cura di G. Campioni)
Con la secolarizzazione sono caduti i valori platonico-cristiani che un tempo guidavano l’uomo. Manca ora la risposta ai perché. D’altro canto, non è il non il senso a far emergere il nulla dell’esistenza. È piuttosto la scelta del nulla, il lasciarsi andare a questo sentimento a rendere il mondo irrazionale. La sintomatologia è dunque chiara. Prima di essere un concetto, il nulla si dà come un sentimento proprio dell’esistenza umana. In questo sentimento troviamo l’angoscia della morte, il vuoto che abita i desideri, lo spaesamento di fronte al non senso. E molto altro: la noia, la percezione della fragilità, del “fané”, dello sfiorire; il nulla è insomma un sentimento caleidoscopico che vive di molteplici esperienze.
Tuttavia, come direbbe Gabriel Marcel, « affermando il primato del nulla, mi ripiego sulla mia disperazione, mi rinchiudo interiormente » (G. Marcel, L’homme problématique). Più l’uomo si lascia andare a questo sentimento, più si deteriora il suo rapporto con sé, con gli altri e con il mondo. In che modo Parmenide potrebbe essere utile per interrogare e affrontare quello che sembra un male incurabile della condizione umana?
Diagnosi ed eziologia
Il sentimento del nulla nasce dalla tendenza a sostanzializzare il nulla (diagnosi), a dargli un’esistenza. La condizione dell’uomo è quella di un mostro a due teste:
« I mortali che niente sanno vanno errando, uomini a due teste: infatti è l’impotenza che nei loro petti dirige una mente errante; ed essi sono trascinati sordi e ciechi insieme, attoniti, gente senza facoltà di giudizio. Dai quali l’essere e il non essere sono considerati lo stesso e non lo stesso, e perciò di tutte le cose il cammino è reversibile. » (Parmenide, Poema sulla natura, fr. 6)
Parmenide utilizza dei forti appellativi per identificare la condizione umana. L’uomo che confonde essere e non essere ha una mente errante; è sordo e cieco, attonito, senza giudizio; è diretto dall’impotenza. Questa ultima parola racchiude un po’ la direzione che bisogna dare alle altre. Lo stato in cui versa l’uomo non è tanto la conseguenza di una libera scelta, piuttosto l’effetto di un’incapacità, di un’impotenza a distinguere l’essere e il non essere. Non dimentichiamo che la verità dell’essere, come si evince dal proemio, non è “conquistata” dal filosofo. Parmenide, per ricorrere a un’immagine di Kant, non è il giudice che interroga la natura fino a che non gli riveli i suoi segreti. È la verità a scegliere Parmenide e ad aprirgli il regno dell’essere. Dall’erranza non si può uscire con uno schiocco di dita, con una semplice riflessione razionale sull’impossibilità di pensare il non essere.
Almeno però a partire da Platone – si pensi al Parmenide e al Sofista –, la questione centrale non è stata quella di comprendere la dimensione etica sottesa alla tendenza a dare un’esistenza al non essere, quanto il pensare il molteplice senza fare concessioni sul piano logico al non essere. Ma il problema del non essere non rientra solo nella dimensione logico-metafisica o più in generale teoretica. Non si tratta di un errore che riguarda in ultima istanza il bios theoretikos. Nel poema si parla di un’erranza, appunto, che coinvolge il bios praktikos, il modo di agire, la postura dell’essere nel mondo; è in gioco insomma anche l’eudemonia.
Il filosofo francese Clément Rosset è tra i lettori di Parmenide quello che forse ha meglio colto l’eziologia, quello che vi è “dietro” la tendenza umana a sostanzializzare il nulla. Così commenta il celebre passaggio «occorre per il dire e il pensare che l’essere sia: infatti l’essere è, mentre il nulla non è: queste cose ti esorto ad ammettere» (Parmenide, Poema sulla natura, fr. 6):
« Resta il fatto che, qualunque traduzione se ne dia, queste frasi di Parmenide sembrano a prima vista di una banalità e di una povertà totali, in quanto si limitano a ricordare ciò che è manifesto in sé e evidente a tutti: ciò che è, è, ciò che non è, non è. Pura tautologia, da cui apparentemente non c’è nulla da imparare né da temere. Eppure, osservandole più da vicino, queste frasi si rivelano presto sia paradossali che terrificanti; e Parmenide stesso ci ha avvertiti, fin dall’introduzione del suo poema. Paradossali in quanto, lungi dal lusingare la “ragione” abituale, si scontrano con un senso comune, o con una sensibilità comune, perché gli uomini sono molto più disposti ad ammettere che ciò che esiste non esiste del tutto e che ciò che non esiste possiede un qualche vago credito di esistenza, per quanto minimo e disperato possa essere. [...] La Dea di Parmenide fa dell’uomo un condannato alla realtà, e un condannato senza appello, nessun tribunale essendo abilitato a conoscere le sue richieste o le sue rimostranze. Ciò che esiste è da un lato inconfutabile in sé, dall’altro confuta tutto ciò che sarebbe altro: nessun alone di alterità o di mistero per prestare assistenza all’angusta singolarità di ciò che esiste. » (C. Rosset, L’école du réel)
Il dare un’esistenza al nulla nasce dalla difficoltà dell’uomo ad accettare la realtà, ad accoglierla pienamente come esistente. Nell’affermare “ciò che è, è, ciò che non è, non è” Parmenide dice quello che ben pochi sono disposti a intendere: non vi è altra realtà al di fuori di quella che è. Di fronte alle sfide che pone il reale, alla sua presenza a volte drammatica, deludente, frustrante, l’uomo ama rifugiarsi in un “altrove”, che sarebbe più reale del reale. “La realtà non è come dovrebbe essere”: così nel momento in cui accade la realtà che rovina le proprie aspettative, l’uomo si illude che questo evento cancelli la “vera” realtà, quella che dovrebbe essere. Si produce insomma l’assurda situazione che:
« l'insieme degli eventi che si verificano – cioè la realtà nel suo complesso – non è che una sorta di “cattivo” reale, appartenente all'ordine del doppio, della copia, dell'immagine: è l’“altro” che questo reale ha cancellato che è il reale assoluto, l’originale autentico di cui l’evento reale non è che una controfigura ingannevole e perversa. » (Ivi)
Questo “altro” non ha però alcuna consistenza, non è che un’illusione che parassita la realtà.
Terapia: abbracciare la realtà
Nei frammenti pervenuti del poema Sulla natura non sono ravvisabili “esercizi”, una terapia che possa condurre l’uomo a guarire dall’illusione del non essere. È probabile che anche se l’opera di Parmenide, per delle fortunate coincidenze, fosse pervenuta nella sua interezza, non troveremmo comunque consigli espliciti in merito. Come più volte osserva Pierre Hadot (ad esempio cfr. Esercizi spirituali e filosofia antica), strategie terapeutiche inquadrabili all’interno della categoria di “esercizi spirituali” sono attestabili a partire dalle filosofie ellenistiche. Sebbene possano esserci precursori, la dimensione terapeutica della filosofia si impone sulla scena soprattutto da Socrate.
Contestare un simile giudizio non è possibile, anche perché la carenza di fonti a disposizione non lo permetterebbe. Resta comunque il fatto – altrettanto riconosciuto dalla critica – che i cosiddetti filosofi “presocratici” non sono disinteressati all’etica e, più in particolare, alle questioni legate al mondo delle passioni. E questa costituisce una delle ragioni che induce molti studiosi a considerare oramai desueta la categoria storiografica di “presocratico”.
Alla luce di queste considerazioni e delle osservazioni di Rosset, l’affermazione “l’essere è” può essere letta come una verità che sconfina l’ambito ontologico. “L’essere è” è anche un invito ad abbracciare la realtà, a trasformare il nostro atteggiamento nei confronti dell’esistenza. Con un semplice esempio si può intuire subito come tale conversione dello sguardo dal doppio illusorio della realtà alla realtà stessa sia un’operazione complessa che implica un costante lavoro interiore.
Immaginiamo che un evento avverso frustri delle aspettative o dei progetti importanti. Ci si sente “infelici”, “non felici”. Eppure, la “non felicità” in sé non esiste: si può essere tristi, arrabbiati, malinconici. Ma non si è “non felici”. La negazione non definisce il proprio stato d’animo; anzi, se non si va oltre, si corre il rischio di non prendere consapevolezza dei reali sentimenti che turbano lo spirito e dei pensieri-giudizi ad essi associati. Si cade inconsapevolmente nell’“illusione del doppio”: la realtà come è – la situazione di frustrazione in cui si vive – appare la negazione della vera realtà – la realtà come dovrebbe essere –, nonostante quest’ultima non esista e non si sia mai data. Questo atteggiamento favorisce i rimorsi, i rimpianti e, a lungo andare, l’irresolutezza, in quanto il soggetto, sempre più assorbito dalla realtà illusoria, non riesce a focalizzarsi sulle risorse del presente. Cambiare una maniera così comune di ragionare non è semplice: è più facile svalutare la realtà e rifugiarsi in un mondo illusorio che accogliere l’esistente nelle sue innumerevoli e spesso dolorose sfaccettature.
Ancora più arduo è abbracciare il reale quando si tratta di pensare la propria morte. Come non vedere nella morte il nulla, la fine di tutto? Come non sperare in un’esistenza eterna, in cui sarebbe possibile quello che nella vita reale appare fuori portata? A queste domande lo Zarathustra di Nietzsche replicherebbe:
« Così io parlo a coloro che abitano un mondo dietro il mondo. Sofferenza era e incapacità – questo creò tutti i mondi dietro il mondo; e quella illusione breve di felicità, che solo conosce chi più di tutti soffre. Stanchezza, che d’un sol balzo vuol attingere le ultime cose, con salto mortale: una misera ignorante stanchezza, che non vuol più nemmeno volere: essa ha creato tutti gli dèi e i mondi dietro il mondo. » (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, a cura di G. Colli e M. Montinari)
Parmenide si ricongiunge idealmente a Nietzsche. L’illusione del doppio è figlia della stanchezza, dell’incapacità di abbracciare il reale. Sembrerebbe allora che una lettura in chiave terapeutica permetta di inserire il filosofo di Elea in una tradizione che non sia solo quella metafisica, liberandone virtualità nascoste spesso dimenticate dai suoi più grandi commentatori.
Conclusione
A conclusione di questo breve percorso nel pensiero di Parmenide, è utile insistere sul potenziale terapeutico del pensatore di Elea. Un primo aspetto interessante è la possibilità di farlo dialogare con correnti filosofiche diverse da quelle prese in genere in esame dalla tradizione storiografica. L’accettazione della realtà – da non intendere nei termini della rassegnazione passiva al corso degli eventi – è infatti uno dei cardini di molte filosofie ellenistiche. Si pensi ad esempio allo stoicismo e alla distinzione di Epitteto tra “ciò che dipende da noi” e “ciò che non dipende da noi”, all’epicureismo che invita a focalizzarsi sul presente senza perdersi nelle proiezioni illusorie di un lontano futuro, e in una direzione simile, anche se più radicale, alla filosofia cirenaica.
Un secondo aspetto è il nuovo volto che può assumere l’attualità di Parmenide. Il filosofo di Elea non rappresenterebbe più solo la chiave per interrogare da una prospettiva più originaria la questione dell’essere – approccio prediletto da pensatori come Heidegger. Nella nostra epoca in cui il “doppio” illusorio del mondo virtuale ci sta allontanando pericolosamente dall’esistente, il pensiero di Parmenide può costituire un importante monito che ci ricorda l’importanza di prestare attenzione e ascolto al reale.
10 gennaio 2025