I partiti non servono a nulla

 

Non è il solito slogan populista, ma il concetto centrale del Manifesto per la soppressione dei partiti politici di Simone Weil, pubblicato per la prima volta nel numero 26 della rivista La Table Ronde del febbraio del 1950, a sette anni dalla morte dell’autrice. Un concetto che, sviluppato nella prima metà del Novecento, tutt’ora risulta estremamente penetrante: in un mondo in cui la politica continua a deludere, dove sempre meno gente vota e si fida dei politicanti  sempre più interessati ai voti durante la tornata elettorale, sempre meno propensi a rispettare le promesse una volta eletti. E così, l’elettore medio, dopo aver riposto la fiducia in svariati partiti, all’ennesima delusione rinuncia del tutto a votare, a utilizzare il suo potere politico. Se, però, il problema non fosse, appunto, il tipo di partito scelto o l’incapacità politica del singolo governo, ma il sistema partitico in sé? Se fosse da ripensare daccapo il modo in cui viene strutturata la vita politica? Proviamo a ragionarci assieme a una delle più grandi filosofe del secolo scorso, Simone Weil.

 

 

« L’idea di partito non rientrava nella concezione politica francese del 1789, se non come quella di un male da evitare. […] Furono da un lato l’eredita del Terrore, dall’altro l’influenza dell’esempio inglese a insediare i partiti nella vita pubblica europea. Il fatto che esistano non è in alcun modo un motivo per conservarli. Soltanto il bene è un motivo legittimo di conservazione. »

 

Fin dalle prime pagine del Manifesto, Weil non la tocca piano sui partiti. Ma per spiegare la sua posizione critica, lei stessa esplicita un concetto del suo pensiero: ciò che unisce gli uomini è la ricerca della giustizia, che si fonda sulla ricerca della verità.

 

« La verità è una. La giustizia è una. Gli errori, le ingiustizie, sono indefinitamente variabili. Così gli uomini convergono nel giusto e nel vero, mentre la menzogna e il crimine li fanno indefinitamente divergere. Poiché l’unione è una forza materiale, si può sperare di trovarvi una risorsa che permetta di rendere quaggiù la verità e la giustizia materialmente più forti del crimine e dell’errore. »

 

Serve allora una società in cui la politica favorisca questo spirito di unione, creando le condizioni affinché le persone possano ricercare la verità e la giustizia e ad esse conformare la vita comune. Tale volontà di giustizia non può essere imposta al popolo: non solo gli si farebbe violenza, ma come potrebbero le masse accettare un certo ordinamento come giusto, se non ne sono convinte loro stesse? Imporre il bene agli altri è un atto di presunzione: anche se fatto in buona fede, è solo un modo per evitare di mettere alla prova del consenso le proprie posizioni.

Al contempo, però, Weil non idolatra cosa il popolo voglia: non è detto che in automatico le masse sappiano cosa è bene. Come lei afferma, riferendosi alla Rivoluzione francese:

 

« Il vero spirito del 1789 consiste nel pensare non che una cosa sia giusta perché il popolo la vuole, ma che a determinate condizioni il volere del popolo abbia maggiori possibilità di qualsiasi altro volere di essere conforme alla giustizia. »

 

Le persone devono essere poste in condizioni di studiare il mondo, di confrontarsi, di mettere alla prova le loro posizioni e sentire cosa per loro è essenziale. Solo in tal modo potranno avvicinarsi quanto più possibile alla giustizia. D’altro canto, affinché ciò abbia un senso, serve anche «che il popolo sia chiamato a esprimere il proprio volere riguardo ai problemi della vita pubblica, e non solamente a operare una scelta di persone. Meno ancora la scelta di collettività irresponsabili».

 

Detto in altre parole: non basta votare ogni cinque anni delle persone che neppure conosciamo per garantire la democrazia. Bisogna avere la possibilità di sviluppare, nel confronto, un proprio pensiero critico e di farlo pesare nell’agone politico. Purtroppo, afferma amareggiata Weil:

 

« La sola enunciazione di queste due condizioni indica che non abbiamo mai conosciuto nulla che assomigli, neppure da lontano, a una democrazia. »

 

Ma perché la strutturazione partitica della politica non permette di raggiungere tali condizioni? Per capirlo, bisogna far caso a come Weil definisca il concetto di partito. Esso è, «in linea di principio, uno strumento destinato a servire una certa concezione del bene pubblico». Esso presenta dunque una dottrina, che risulta essere sempre molto vaga secondo Weil: già un singolo individuo, anche se passa l’intera sua vita a studiare, difficilmente ha una dottrina definita, una weltanschauung, una visione del mondo chiara, tante sono le cose da comprendere e mai del tutto chiare. «So di non sapere», diceva un noto filosofo greco. Perché mai, allora, un partito potrebbe avere una visione sul mondo, e il suo funzionamento, chiara e definitiva? Eppure, a parole, i partiti spesso si presentano come strutture ben definite, con un pensiero collettivo chiaro e condiviso da tutti i suoi membri. Passiamo ora alle tre caratteristiche fondamentali del partito:

 

« Un partito politico è una macchina per fabbricare passione collettiva.

Un partito politico è un’organizzazione costruita in modo da esercitare una pressione collettiva sul pensiero di ognuno degli esseri umani che ne fanno parte.

Il fine primo e, in ultima analisi, l’unico fine di qualunque partito politico è la sua propria crescita, e questo senza alcun limite. »

 

 

La caratteristica fondamentale è la seconda: il partito, nel suo volere smuovere gli animi delle persone e nel voler acquistare sempre più potere in società per affermare la sua volontà, spinge affinché i propri militanti aderiscano alla dottrina da lui stabilità. In ciò, Weil ci vede la morte di ogni genuina ricerca della verità. Il perché è facilmente intuibile. Come l’autrice afferma: 

 

« Immaginiamo il membro di un partito – deputato, candidato al Parlamento o semplicemente militante – che prenda in pubblico il seguente impegno: «Ogniqualvolta esaminerò un qualunque problema politico o sociale, mi impegno a scordare completamente il fatto che sono membro del mio gruppo di appartenenza, e a preoccuparmi esclusivamente di discernere il bene pubblico e la giustizia.»

Questo linguaggio sarebbe accolto in modo negativo. I suoi, e anche molti altri lo accuserebbero di tradimento. »

 

Quando uno fa parte di un partito, si impegna a professare la dottrina del partito. Se in certi momenti discordasse con la dottrina ufficiale, in pubblico non potrebbe esprimere cosa ritiene personalmente vero o giusto, perché finirebbe per tradire il partito. Oppure dovrebbe affermarlo sottolineando che è solo “un punto di vista personale”: giro di parole utile a sminuire quanto si dice, a svilire la propria individualità a favore della collettività soverchiante del partito. Posizione che per Weil è folle: come possiamo accettare di rinunciare al nostro pensiero critico? Ascoltiamo le sue parole:

 

« Se riconosciamo che esiste una verità, allora non ci è permesso pensare ad altro che a ciò che è vero. Pensiamo allora una determinata cosa non perché ci troviamo a essere effettivamente francesi, cattolici o socialisti, ma perché la luce irresistibile dell’evidenza obbliga a pensare così e non altrimenti. »

 

E ancora:

 

« La verità è costituita dai pensieri che sorgono nello spirito di una creatura pensante, unicamente, totalmente, esclusivamente desiderosa della verità. »

 

Come si può allora accettare di rinunciare alla verità creduta per professare all’esterno la “verità” imposta dal partito? Sarebbe come mentire a chi ci ascolta: l’esatto opposto di ciò che un vero politico dovrebbe fare. Se la gente entra nei partiti non è perché essi siano la soluzione ideale per fare politica, ma perché sono l’unico modo esistente per essere attivi politicamente. 

Si entra così in una realtà che non ha come primo scopo la ricerca personale della verità e della giustizia, ma l’accettazione del proprio dogma da parte dei militanti. Afferma Weil: 

 

« Un uomo che aderisce a un partito ha verosimilmente visto nell’azione e nella propaganda di quel partito cose che gli sono parse giuste e buone. Ma non ha mai studiato la posizione del partito relativamente a tutti i problemi della vita pubblica. Entrando a far parte del partito, accetta posizioni che ignora. Sottomette così il suo pensiero all’autorità del partito. Quando, poco a poco, conoscerà le posizioni che oggi ignora, le accetterà senza esaminarle.

[…] Se un uomo dicesse, richiedendo la sua tessera di membro: «Sono d’accordo con il partito su questo, questo e quest’altro punto. Non ho studiato le sue altre posizioni e riservo interamente la mia opinione fino a che non ne avrò portato a termine lo studio», lo si pregherebbe probabilmente di ripassare in seguito. »

 

Insomma, i partiti accecano il senso di giustizia, silenziano la ricerca personale di verità, non permettono agli individui di esprimersi. La sentenza di condanna è inevitabile. E la pena, per Weil, è la loro soppressione. O così almeno dovrebbe essere. Ma se eliminiamo i partiti, cosa subentra al loro posto? Non che il Manifesto entri nella questione approfonditamente, ma nelle ultime pagine troviamo delle riflessioni tutt’altro che banali e su cui dovremmo meditare a lungo.

 

Innanzitutto, non bisogna per Weil negare la divisione fra eletti ed elettori: la politica rappresentativa, a fronte dei grandi numeri della popolazione, è necessaria. Bisogna però che i candidati politici non si presentino alle elezioni sulla base di un’etichetta, cioè della loro adesione a un partito, ma sulla base del loro pensiero. Ognuno dovrebbe farsi conoscere e votare per le sue, personali convinzioni. Una volta votati, «gli eletti si assocerebbero e di dissocerebbero secondo il gioco naturale e mobile delle affinità».

 

Ciò non vieta che, dentro e fuori dal Parlamento, si organizzino dei circoli di opinione, dove persone dalle idee comuni si ritrovino assieme per discutere sul da farsi a livello politico. Ma tali circoli, per essere accettati, dovrebbero rimanere in stato di fluidità: le persone, e in particolare i politici eletti, dovrebbero entrarvi e uscirvi sulla base della condivisione delle idee con quel circolo. Qualcosa di mutevole, in quanto ogni individuo nel tempo cambia posizione, col procedere della sua ricerca personale della verità. Ma soprattutto, sottolinea Weil, nessun eletto dovrebbe mai votare qualcosa sulla base dell’appartenenza a un circolo: vota secondo la propria coscienza, non per appartenenza a una realtà.

 

Bisogna, in sintesi, che esistano realtà collettive dove le persone e i politici possano confrontarsi, ma queste mai dovrebbero poter vincolare la volontà dei politici. In tal modo, il parlamento sarebbe un insieme di persone che genuinamente ricercano la verità e la giustizia, senza sottomettersi a una posizione prestabilita. Senza stare dogmaticamente da un lato o dall’altro della barricata. 

 

Come detto, Weil rimane vaga sulla soluzione per abolire i partiti politici, eppure la sua proposta è tutt’altro che banale, anzi andrebbe approfondita per capire se davvero una tale linea basti ad arginare le influenze di collettività sul pensiero di chi viene eletto in politica. Soprattutto, sarebbe utile capire se ciò possa sconfiggere quello spirito imperante di gruppo, tanto criticato da Weil e purtroppo tutt’ora imperante, per cui si è pro o contro una posizione, si è a favore di un gruppo e contro l’altro, dimenticando prima di tutto di essere una testa pensante. Anziché cercare cosa è vero, prendiamo posizione aprioristicamente per una posizione, trovando poi gli argomenti che la favoriscono ed evitando di esaminare tutto ciò che sia contrario ad essa. Dice Weil:

 

« Quasi dappertutto – e anche, di frequente, per problemi puramente tecnici – l’operazione di prendere partito, di prendere posizione pro o contro, si è sostituita all’operazione del pensiero. »

 

Serve tornare a pensare per fare politica. Bisogna evitare che la nostra individualità sia soggiogata da collettività che strangolano la nostra libertà. Ma forse, bisognerebbe anche conoscere un po’ meglio il pensiero di Simone Weil: se è vero che siamo nani che camminano sulle spalle di giganti, per avere un pensiero critico sulla politica dobbiamo innanzitutto conoscere le idee di chi ha dedicato la sua vita a cercare di comprendere questo mondo, riflettendo su tematiche quali quelle di libertà, individuo, collettività, potere, lavoro e non solo. Se vi interessasse conoscere a fondo una delle autrici più influenti del secolo scorso nel pensiero politico, vi invitiamo all’intervista… DA COMPLETARE

 

 

6 febbraio 2025

 







Canale Telegram: t.me/gazzettafilosofica