Il tempo è agli sgoccioli. È necessario cercare delle soluzioni radicali alla crisi ecologica incombente che minaccia tutti: perché, come insegna K. Saitō, è importante congiungere comunismo e decrescita?
§1. Il “solipsismo economico” di cui parlava K. Polanyi e la difficoltà di rendere ecologico il modello di sviluppo economico senza cambiamenti di paradigma.
Nell’ultima opera incompiuta del 1977 – La sussistenza dell’uomo. Il ruolo dell’economia nelle società antiche –, il grande antropologo dell’economia K. Polanyi definiva “fallacia economicistica” l’influenza nefasta alimentata dalla mentalità mercatista con la sua riconversione della terra e dell’attività professionale in merci, la quale stabiliva un’omologia tra società e mercato e predicava l’utilitarismo dei moventi umani e l’atomismo. In breve, avviluppò la mente delle persone una chiusura mentale peculiare, un blocco cognitivo che lo studioso descrive nei termini di un “solipsismo economico” analogo a quanto scrisse più recentemente lo psicologo britannico O. James (in Il capitalista egoista) scavando nella mentalità del “capitalista egoista” e della sua condizione disagiata ossessionata dal consumismo compulsivo e dalla precarietà dei rapporti sociali.
Stretti tra l’incudine della minaccia climatica alla specie umana e il martello degli interessi di classe dei potentati economici che lottano per conservare la loro estrazione di plusvalore incuranti dell’ambiente, urge la necessità di ripensare le lotte sociali e ambientaliste per costruire una proposta alternativa olistica che integri la giustizia sociale con quella climatica nella direzione di una deep ecology radicale e non “superficiale” addomesticata dal Capitale (cfr. A. Naess, Ecosofia). In altre parole, diventa importante rigettare le exit strategy dei vari partiti progressisti allineati al sistema, che incorsero nell’impasse di seguire il capitalismo sul suo stesso terreno abdicando alle proprie storiche battaglie in difesa dei lavoratori (cfr. J. C. Michéa, Il vicolo cieco dell’economia). Come giustamente sottolineato dagli studi pionieristici dell’ecofemminismo che ha avuto il merito di mostrare le connessioni tra il meccanicismo riduzionista e lo sfruttamento della natura (cfr. C. Merchant, La morte della natura) e dell’ecomarxismo, che ha parlato di seconda contraddizione del capitalismo alludendo al rapporto tra condizioni di produzione e rapporti di produzione (cfr. J. O’Connor, La seconda contraddizione del capitalismo), non serve rendere compatibile il sistema economico vigente con un impianto ambientalista, quanto fuoriuscire da quello per approdare a modelli di gestione delle risorse equi e socialisti. Il traguardo ideale per la società umana sfidata dalla crisi ambientale non deve essere, pertanto, il mero business as usual, il pacifico ritorno a forme di vita incardinate nella prassi alienata e consumistica cui ci abituano i “persuasori occulti” mediatici quanto l’edificazione di una cultura dei limiti ecologici in osmosi con la preservazione della biocapacità degli ecosistemi (cfr. G. Kallis, Why Malthus was wrong and why environmentalists should care). L’obiettivo cui ambire è un’alternativa ecosocialista in grado di difendere un robusto impianto di servizi assistenziali gratuiti e allo stesso tempo livelli di democraticità compatibili con una riorganizzazione sociale a vantaggio della working class ponendo fine all’accumulazione economica attraverso modalità di pianificazione: imparando che “less is more” (cfr. J. Hickel, Siamo ancora in tempo!) e reimmaginando creativamente il rapporto tra le risorse soggette alla rarefazione e i bisogni umani da autolimitare in proporzione. Una strada autenticamente emancipativa capace di distinguersi tanto dai fantasmi del fascismo verniciato di verde (vedesi P. Linkola e i suoi argomenti radicali) quanto da modelli politici organicistici e comunitaristi che rischiano di attentare alle libertà del singolo come anche delle romanticizzazioni della natura che prestano il fianco all’accusa di essenzialismo (nel caso di T. Kaczynski e del suo elogio della wilderness).
§2. La necessità di rendere compatibili la decrescita e il marxismo in funzione dell’ecosocialismo.
Proprio allo scopo di difendere il cambiamento necessario per rimediare ai mali degli spiriti animali del Capitale, dal Giappone si è levata la voce di un giovane specialista del pensiero marxiano, K. Saitō, che dapprima in uno studio dedicato al rimosso ecologico della produzione intellettuale del Moro (cfr. K. Saitō, L’ecosocialismo di Karl Marx) poi in un contributo successivo improntato ad un’analisi critica del capitalismo (cfr. K. Saitō, Il capitale nell’Antropocene) connette insieme ecologismo e anticapitalismo.
Saitō recupera originalmente la lezione dimenticata di Marx in materia di ambientalismo contenuta nei propri quaderni di scienze naturali, il suo studio attento sulla falsariga del chimico Liebig e dell’agronomo Frass del sovraconsumo del suolo per effetto delle pratiche agricole capitalistiche come del disboscamento selvaggio dei popoli antichi e dei suoi effetti autodistruttivi. Attraverso la rielaborazione critica di questi scienziati, il padre del comunismo ebbe modo di abbozzare una teoria metabolica della società, l’idea di un’interazione reciproca uomo/Natura omeostatica in antitesi al sovrasfruttamento capitalistico indotto dalla spinta accumulativa innescata dalla ricerca di sempre maggiori margini di profitto. Così viene a cadere in un sol colpo tanto la taccia rivolta al marxismo di prometeismo quanto la critica di produttivismo, perché come spiega il giovane pensatore nipponico, nell’ultimo Marx scompare il “primato della produzione” e si assiste ad una svolta teorica che lo conduce a mettere in questione tanto l’orientamento eurocentrico delle opere precedenti quanto la lettura in chiave sviluppista che aveva informato molte sue analisi. E occorre ricordare sempre per quanto concerne il tema dello sviluppismo che nell’ultimo Marx è anche assente qualsiasi filosofia della storia (come gli rimprovererà molti anni dopo K. Löwith in Meaning in History, denunciando nel marxismo una teologia capovolta) come si evince da una lettera alla redazione russa di Otechestvennye Zapiski (cfr. K. Marx, F. Engels, India Cina Russia).
Analogamente al tentativo di due studiosi marxisti italiani (cfr. M. Badiale, M. Bontempelli, Marx e la decrescita), si cerca di allacciare a tematiche post-sviluppiste e ispirate alla decrescita la filosofia emancipativa promossa dal marxismo, incastrando nella critica del modo di produzione capitalistico la decostruzione del mito della crescita illimitata che purtroppo ha contagiato filoni di sinistra come l’accelerazionismo. Come ricordano Badiale e Bontempelli convergendo con la lettura di Saitō, infatti, il volto della crescita economica ha assunto le sembianze sinistre di una devastazione ecocida senza fine, lo sviluppo capitalistico incurante del peso dei limiti ecologici e dell’impronta carbonica è volto al suicido programmato, senza futuro. A nulla valgono le illusioni di disaccoppiamento della crescita dallo sviluppo, gli entusiasmi ecomodernistici di quanti alla S. Pinker auspicano più tecnologia e maggiore efficienza delle strumentazioni tecniche per cavalcare l’onda del cambiamento climatico, perché come nota puntualmente il marxista giapponese per paradosso di Jevons non sempre gli efficientamenti si traducono in maggiore sostenibilità ambientale e il decoupling in termini assoluti non si è mai realizzato. Non è una strada percorribile nemmeno il Green New Deal, perché troppo condizionato da una logica economica che volendo salvare crescita ed equilibrio ambientale scontenta tutti senza avere il coraggio necessario di effettuare vere politiche di giustizia distributiva per far venir meno il “modo di vita imperiale” (per citare U. Brand e M. Wissen) che porta a spoliazioni di risorse delle periferie del sistema-mondo capitalista da parte dei centri più sviluppati e opulenti (cfr. K. Saitō, Il capitale nell’Antropocene).
L’unica possibilità consiste nello sbarazzarsi della falsa alternativa della crescita fine a se stessa delle merci cui finiscono per essere accomunate destra e sinistra (cfr. M. Pallante, Destra e sinistra addio), la rappresentazione magica del trionfo dello sviluppo ciclopico delle forze produttive che ha finito per far combaciare capitalisti e socialisti reali in spregio a Marx (cfr. J. Baudrillard, Lo specchio della produzione, dove si sostiene che al produttivismo soggiaccia anche il marxismo).
E proprio in funzione della dissoluzione dei feticci del progresso delle forze produttive a scorno dell’etica dell’ambiente diventa ineludibile il confronto critico con la decrescita, definibile come l’avviamento di riforme radicali (cfr. G. Kallis, S. Paulson, G. D’Alisa, F. Demaria, Che cosa è la decrescita oggi) quali la riduzione degli orari di lavoro, l’introduzione di condizioni sociali minime garantite, la rivendicazione dei beni comuni, il potenziamento e l’estensione dei servizi di cura, tasse progressive globali sui grandi patrimoni e misure economiche contro i colossi inquinanti, l’innalzamento dei salari, ecc. In questo senso per Saitō si tratta di costruire una visione del mondo che sappia dialettizzare decrescita e comunismo, unendo l’egualitarismo socialista alla difesa del mantenimento della footprint della specie umana entro i vincoli di sistema dei planetary boundaries studiati dal gruppo di scienziati di Johan Rockström di Stoccolma, di là dalla scarsità prodotta artificialmente dal capitalismo e dell’omnimercificazione cominciata con le enclosures e la progressiva scomparsa dei commons. Il comunismo della decrescita nella lettura proposta dal filosofo nipponico dovrebbe così da un lato democratizzare la produzione, dall’altro reincastrarla polanyianamente nella vita politica mettendola in condizione di non nuocere (anche C. Preve sosteneva che avrebbe accettato un minimo di libertà economica purché fosse stata compatibile eticamente con una società socialista, anche Braudel notava che il mercato non è necessariamente capitalistico), imperniando l’economia sul valore d’uso e avviare le riforme radicali sopraccitate. Solo un comunismo verde siffatto andrebbe a vantaggio delle professioni di cura bistrattate economicamente, valorizzerebbe la sovranità alimentare in spregio al consumo standardizzato da multinazionali, capitalizzando la “leva della giustizia climatica” per attuare una giustizia su scala più ampia sulla falsariga di quanto fatto dal movimento spagnolo di piazza 15M, le fearless cities e il loro impegno per la giustizia climatica, alcune reti di cooperative, la via Campesina, il Sunrise Movement, Exctinction Rebellion, i Fridays for Future e il Black Lives Matter, conclude l’autore.
Dato quindi per assodato il collasso inevitabile del modello socioeconomico attuale, con le sue forbici di disuguaglianza in crescita e le sue aporie irriformabili, urge rivolgere la mente a possibilità inedite di vita in comune per contrastare l’egemonia dell’homo oeconomicus neoliberale. La civiltà capitalista si arresterà fatalmente divorando se stessa una volta venute al pettine le proprie contraddizioni insormontabili in termini di distribuzione della ricchezza, sovrasfruttamento delle risorse non rinnovabili, guerre per accaparramento delle materie prime tra potenze rivali, lasciando sulle sue macerie la speranza di un futuro all’insegna del socialismo e della decrescita.
14 febbraio 2025
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