Disciplinarsi con Marco Aurelio

 

Nei “Colloqui con se stesso” Marco Aurelio offre consigli pratici per guarire dai mali dell’anima. Vedremo come apprendere a disciplinare l’assenso, i desideri e le azioni. In una società come la nostra, dove regnano sempre più la dismisura e l’assenza di controllo, il grande imperatore filosofo può aiutarci a liberare il nostro principio direttivo (la ragione) dalle “fantasie” e dalle passioni che lo affliggono.

 

Di Salvatore Grandone

 

 

Marco Aurelio: filosofo e stoico? Marco Aurelio è un filosofo? E, in caso affermativo, si può definire uno stoico? Per i non addetti ai lavori le due domande appaiono pleonastiche. Si dirà che Marco Aurelio è un filosofo, perché come tale è indicato in tutti i manuali di filosofia. Il suo riferimento filosofico principale è inoltre Epitteto: è naturale allora considerarlo uno stoico. Ovviamente, si può anche tirare in ballo l’autorità dei molteplici divulgatori-filosofi-influencer che leggono e commentano in meno di un minuto le più note sentenze dei Colloqui con se stesso. Ma questa è un’altra storia… I quesiti posti sono in realtà meno retorici di quanto sembri. Partiamo dal primo (“Marco Aurelio è un filosofo?”).

 

L’unica opera “filosofica” di Marco Aurelio consiste in una serie di pensieri sparsi scritti per sé. Qualcuno li ha raccolti dopo la sua morte dandogli probabilmente l’ordine presente ancora nelle nostre edizioni. Il testo ha attraversato fortunosamente il Medioevo fino ad arrivare al Rinascimento e alla sua prima edizione a stampa, accompagnata da una traduzione latina, nel 1559.

 

Anche il titolo è un’aggiunta successiva. In Francia prevale Pensieri, da noi Colloqui con se stesso, ma la storia è lunga. Tra il IX-X secolo è indicato come “il libro utile”. Nel XVII secolo è comune il titolo De vita sua (Sulla sua vita). Nello stesso periodo, meno diffusa ma presente, la variante De officio suo. In età moderna si tende a sottolineare soprattutto la riflessività – ben visibile nell’attuale Colloqui con se stesso. Tuttavia nelle edizioni contemporanee questo aspetto non è sempre menzionato: accanto a Colloqui con se stesso sono ugualmente frequenti Pensieri, Ricordi e Meditazioni.

 

Le oscillazioni dei titoli rinviano a un’incertezza nel reperire il “genere” di appartenenza. Il testo non è un diario intimo, perché l’imperatore non parla dei suoi affanni o di questioni personali. Non si trova una confessione; Marco Aurelio non apre al lettore le porte della sua anima. Basta una rapida lettura per dubitare perfino della possibilità di pensare i Colloqui come un libro filosofico in senso stretto. Le sentenze e anche gli aforismi più lunghi non hanno una grande densità teoretica. Spesso Marco Aurelio ricopia brani interi delle Diatribe di Epitteto – che gli erano note grazie al filosofo stoico Giunio Rustico. Numerose sono le ripetizioni: ci si imbatte a più riprese in passi praticamente identici.

 

Ecco quello che ci ha lasciato Marco Aurelio. Basta per affiancare all’imperatore l’appellativo di “filosofo”? In base ai parametri odierni, dovremmo dire di no. Marco Aurelio sviluppa una riflessione filosofica frammentaria e poco originale, non è presente uno spessore concettuale che lo possa collocare neanche lontanamente a livello di pensatori quali Platone e Aristotele. D’altronde, come osserva più volte Pierre Hadot nei suoi saggi (cfr. P. Hadot, La cittadella interiore. Introduzione ai “Pensieri” di Marco Aurelio, a cura di A. Bori e M. Natali) – la sua lezione è stata accolta da molti altri pensatori e studiosi –, esistono due modi di essere filosofi. Da una parte il filosofo è colui che crea nuovi concetti, che sviluppa un pensiero teorico complesso.

 

Dall’altra è colui che aderisce a un certo stile di vita, che adotta una maniera di vivere diversa da quella dell’uomo comune. Nella seconda accezione, il filosofo è una persona che converte il proprio sguardo, che dà una svolta radicale alla propria esistenza. Si tratta di un movimento verticale: il filosofo, per usare una bella espressione di Peter Sloterdijk, vuole ascendere al “monte dell’improbabile” (cfr. P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita, a cura di P. Perticari).

 

Marco Aurelio è filosofo, perché si sforza di incarnare nel pensiero, nel desiderio e nell’azione la saggezza stoica, il bios stoico. Non è un filosofo teorico; è un filosofo “pratico”, è filosofo perché vive da filosofo. Nel mondo antico era normale chiamare “filosofi” anche coloro che non avevano scritto alcun libro di filosofia. Anzi, la distinzione tra il vero e il falso filosofo si giocava più sulla maniera di vivere che sulla produzione letteraria:

 

« Un filosofo, nell’Antichità, non è necessariamente, così come si tende facilmente a credere, un teorico della filosofia. Un filosofo, nell’Antichità, è qualcuno che vive nella filosofia, è qualcuno che conduce una vita filosofica. Catone il Giovane, uomo di Stato del I secolo a.C., è un filosofo stoico e, tuttavia, non ha scritto alcun testo filosofico ». (P. Hadot, La cittadella interiore)

 

Resta la seconda domanda. Si può affermare con certezza che Marco Aurelio sia un filosofo stoico?Il quesito è più insidioso del primo. Di recente, lo studioso francese Pierre Vesperini (cfr. P. Vesperini, Droiture et mélancolie. Sur les écrits de Marc-Aurèle) ha contestato polemicamente la possibilità di collocare Marco Aurelio nel movimento dello stoicismo. Le ragioni sarebbero molteplici. Marco Aurelio non cita nei Colloqui solo Epitteto o gli stoici: molto presenti sono anche Socrate, Epicuro e altri pensatori. Le incoerenze più grandi verrebbero dalla sua condotta.

 

L’imperatore ha perseguitato i cristiani, non ha mai messo in dubbio la legittimità della schiavitù. Non era affatto sempre austero, in quanto sapeva anche divertirsi. La critica è interessante, anche se non è ben fondata. Condivido quanto affermato da un altro attento lettore che si attarda a giusto titolo su questa tesi iconoclasta:

 

« La prima ragione per cui possiamo considerare Marco Aurelio un filosofo, e persino un filosofo stoico, è che era considerato tale da molti dei suoi contemporanei e dagli storici antichi, secondo la definizione che davano allora di filosofia, considerata soprattutto come un’arte di vivere ». (F. Lenoir, Le rêve de Marc-Aurèle)

 

Inoltre « anche se sapeva di non essere un saggio compiuto, Marco Aurelio aspirava a diventarlo, e quindi a condurre una vita filosofica » (ivi). Non sembra forte l’argomento che contesta la coerenza dello “stile di vita”. Bisognerebbe infatti verificare la presunta contraddizione tra atteggiamenti e bios stoico. Del resto neanche Epitteto si definisce “saggio” – considera tali solo Socrate e Diogene il cinico –, nonostante uno stile di vita di gran lunga più frugale di quello di Marco Aurelio. Come ogni autentico filosofo, Marco Aurelio aspira alla saggezza, non si qualifica però come “saggio”.

 

È in quanto “amante” che è filosofo, ed è ben consapevole che l’ideale di saggezza stoico è irraggiungibile per lui come per tutti gli altri aderenti a questo bios. La presenza di una certa incoerenza o di tensioni tra la vita reale e la vita filosofica che si vorrebbe incarnare è quindi inevitabile. Non dimentichiamo infine che Marco Aurelio è figlio del suo tempo: non può stupire che sia vittima di certi pregiudizi, né che in qualità di imperatore abbracci posizioni conservatrici. Uno dei suoi maestri di retorica Frontone, poco contento della maniera filosofica di vivere di Marco Aurelio, ricorda al suo alunno:

 

«Cerca, o Cesare, di raggiungere la sapienza di Cleante o di Zenone, pur contro voglia, però tu dovrai vestire il manto di porpora, non uno di lana grossolana». (Frontone, Corpo acefalo di lettere scritte all’imperatore Marco Aurelio, in Id., Frontone, Opere, a cura di F. Portalupi)

 

Marco Aurelio sa bene che non può in nome della filosofia sottrarsi alle sue responsabilità. D’altro canto, la filosofia stoica, al contrario di una vulgata ancora in parte diffusa, non promuove affatto il ritiro dal mondo o l’isolamento, quanto l’impegno attivo nella società. Entriamo ora nel vivo dei Colloqui

 

Cosa sono i Colloqui con se stesso?

 

Marco Aurelio è un filosofo stoico, perché si sforza di incarnare il bios stoico. Ma non è un filosofo teorico. Come inquadrare allora l’anomalo testo che ci è pervenuto? Alla luce delle precedenti considerazioni l’ipotesi di Hadot è ancora valida:

 

« I Pensieri di Marco Aurelio sono “esercizi spirituali stoici”, con cui l’autore mette in atto la “terapia della scrittura” per influenzare se stesso, ossia per trasferire dalla teoria alla pratica le supreme verità ». (P. Hadot, La cittadella interiore)

 

Gli esercizi spirituali sono « fondamentalmente, un ritorno dell’Io a se stesso, che lo libera dall’alienazione dove lo avevano trascinato le preoccupazioni, le passioni, i desideri. L’Io così liberato non è più la nostra individualità egoista e passionale, è la nostra persona morale, aperta all’universalità e all’oggettività, partecipe della natura o del pensiero universali. Grazie a questi esercizi, si dovrebbe accedere alla sapienza, ossia a uno stato di liberazione totale dalle passioni, di lucidità perfetta, di conoscenza di sé e del mondo ». (P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica).

 

Il lascito filosofico di Marco Aurelio consiste in una pratica ascetica, nell’esercizio della scrittura come terapia dell’anima. Di fronte alle innumerevoli difficoltà della vita, personali (la salute cagionevole, le disgrazie familiari) e politiche (la diffusione della peste, le pressioni ai confini dell’Impero dei Quadi e dei Marcomanni, il problema dei Parti, i complotti), Marco Aurelio reagisce mettendo in pratica gli insegnamenti (i “dogmi”) dello stoicismo.

 

La logica, la fisica e l’etica stoica diventano disciplina dell’assenso (logica vissuta), disciplina del desiderio (fisica vissuta), disciplina dell’azione (etica vissuta). Nei Colloqui Marco Aurelio ricorda a se stesso gli esercizi spirituali per affrontare le tempeste dell’esistenza. L’obiettivo è di liberare il principio direttivo, l’egemonico (la ragione), dalla influenza negativa delle passioni. Marco Aurelio vorrebbe costituire una « cittadella interiore » (Marco Aurelio, Colloqui con se stesso), essere come « il promontorio » (ivi) contro cui si infrangono le onde. Analizziamo l’antropotecnica di Marco Aurelio.

 

La disciplina dell’assenso

 

 

Un male dell'uomo è la tendenza a emettere giudizi affrettati, a valutare la realtà non secondo ragione ma sotto la spinta delle pulsioni. Gli oggetti imprimono nell’anima delle rappresentazioni (fantasie): invece di vagliarle attentamente si sovrappongono subito considerazioni di valore, che alimentano passioni dannose.

Leggiamo Marco Aurelio:

 

« Non dire a te stesso più di quanto non riferiscano le percezioni immediate. Ti è stato riferito che un tale parla male di te. Ti è stato riferito. Ma che tu ne sia stato danneggiato, non ti è stato riferito. Vedo che il bambino è malato. Lo vedo. Ma non vedo che è in pericolo. Così dunque attieniti sempre alle prime impressioni, da te non aggiungervi niente di tuo, e non te ne verrà niente. […] Un cetriolo amaro? Gettalo via. Rovi sulla tua via? Scansali. È sufficiente; non aggiungere: “Perché esistono anche queste cose al mondo?”, perché saresti deriso da uno studioso della natura, come pure saresti deriso anche da un falegname e da un calzolaio, se li incolpassi perché vedi nelle loro botteghe trucioli e ritagli dei loro manufatti ». (Ivi)

 

Più di ogni altro, Marco Aurelio è esposto alle maldicenze. Come reagire nei confronti di chi “parla male” di lui? Bisogna mantenere la calma, attenersi a quanto riferito senza fare deduzioni errate – come quella di essere stato danneggiato. In effetti, l’atteggiamento dello stolto è esattamente opposto a quello descritto dall’imperatore. Si passa subito alle conclusioni (“come si è permesso!”, “ora gli faccio vedere io!”, ecc.). Prima ancora di verificare l’attendibilità della fonte e soprattutto l’eventuale effetto nocivo della diceria, le opinioni accendono le passioni. La mente è in preda ad anticipazioni e a ragionamenti privi di fondamento.

 

Questo modo errato di valutare le rappresentazioni è all’opera perfino nei piccoli accidenti della vita quotidiana. Un « cetriolo amaro », dei « rovi sulla strada » sono sufficienti a scatenare discorsi stupidi sul “perché” esistano cose così spregevoli o fastidiose. Un po’ come quando, andando al lavoro, si resta bloccati nel traffico e si comincia a imprecare contro il mondo intero, si pensa che tutti ce l’abbiano con noi! Invece di limitarci a giudizi oggettivi (“il cetriolo è amaro”, “ci sono dei rovi sulla strada”, “c’è traffico”), diamo valutazioni soggettive (“maledetto cetriolo che mi rovini il pranzo!”, “ci mancavano solo i rovi!”, “ecco il solito traffico che manda tutto all’aria!”). Marco Aurelio ricorda a se stesso (e indirettamente a noi) che deve tenersi dritto e fermo di fronte alle rappresentazioni. Bisogna resistere all’assalto delle prime impressioni.

 

Ma se è già difficile praticare questi esercizi per accidenti futili (“un cetriolo amaro”) o qualche parola di troppo (una maldicenza), come mantenere saldo il principio direttivo quando « vedo che il bambino è malato »? Come si fa a non lasciarsi travolgere da pensieri funesti e da una paura incontrollata nel vedere che il proprio figlio non sta bene? Marco Aurelio ha avuto tredici figli, dei quali solo sei supereranno l’infanzia. Si esprime quindi con cognizione di causa. Per rispondere a queste domande non basta la logica vissuta, la disciplina dell’assenso. Occorre addentrarsi nella fisica vissuta: la disciplina del desiderio. 

La disciplina del desiderio

 

Una delle maggiori fonti di sofferenza dell’uomo viene dai suoi molteplici desideri. I desideri divampano nell’anima, la incendiano, la consumano, la tormentano. Per Marco Aurelio i desideri non sono però necessariamente un male. Il vero problema è l’oggetto dei desideri.

 

Il filosofo riprende la celebre distinzione di Epitteto tra “ciò che dipende da noi” e “ciò che non dipende da noi”. In nostro potere sono le opinioni, le preferenze e le avversioni; non sono in nostro potere la salute, la ricchezza, le cariche. Se apprendiamo a desiderare solo quello che dipende da noi, un giorno sarà forse possibile essere felici o comunque ci saremo incamminati verso la strada giusta per raggiungere la felicità. Al contrario, se desideriamo quello che non dipende da noi, saremo condannati all’infelicità.

 

Posso praticare sport, mangiare bene, non fumare e non bere alcolici, questi comportamenti sono in mio potere. Ma la salute non dipende da me, sebbene il mio stile di vita favorisca questa condizione. Posso impegnarmi a fondo nel lavoro, nella carriera; questo non garantisce il successo o la ricchezza. Il mio spirito di abnegazione può certo aiutare, ma né l’uno né l’altra dipendono da me. Esercitarsi su questa distinzione non è affatto semplice. Per prima cosa, non è facile individuare, quando si è molto coinvolti in una situazione, “ciò che dipende da noi” e “ciò che non dipende da noi”.

 

Proviamo a sviluppare l’esempio di Marco Aurelio. Un padre vede il proprio bambino malato. L’evento non dipende dal padre: come ogni essere umano anche il bambino è soggetto alle malattie. In potere del padre è fare tutto il possibile per aiutare il figlio a guarire. Tuttavia il successo della cura non è garantito: sono tanti i fattori che sfuggono al controllo. Supponiamo che il bambino non sopravviva: come può il padre non essere affranto e non essere sopraffatto dal rimorso di aver mancato qualcosa? Sul primo aspetto gli stoici sottolineano più volte che il saggio non è impassibile. Afferma Seneca:

 

« È inumanità, non virtù, vedere le esequie dei propri figli con gli stessi occhi con cui guardiamo le nostre creature quando sono vive e non commuoversi al momento del distacco definitivo dai propri cari ». (Seneca, Lettere morali a Lucilio, 99-15, a cura di F. Solinas)

 

Non si può e non si deve restare insensibili di fronte a eventi drammatici come la perdita di un figlio. Bisogna piuttosto evitare che il dolore inevitabile per la perdita sia acuito da desideri vani e opinioni false (del tipo “gli dèi mi hanno voluto punire!” o “”Dio mi odia!”, ecc.). In merito al secondo versante della questione, il problema è più delicato. Fino a che punto si può essere sicuri di aver fatto tutto il possibile? Gli stoici, come in genere i filosofi antichi, ragionano nei termini di un’assoluta trasparenza dell’io a se stesso. Chi è franco con se stesso, non prova rimorsi.

 

Ma per noi moderni, o meglio postmoderni, l’io è abitato da una densa opacità che mina l’ideale di un agire in cui non coesistano oscillazioni o contraddizioni. Attardarsi su questo punto ci porterebbe però troppo lontani. Preme qui sottolineare che la disciplina del desiderio si fonda su una ben precisa visione del cosmo. Per gli stoici nella natura regna un disegno razionale, per cui tutto quello che accade è necessario ed è anche un bene. Scrive Marco Aurelio:

 

« Le opere degli dèi sono pregne di provvidenza, quelle della sorte sono non sprovviste di un ordine naturale, o contessute e intrecciate con le opere governate dalla provvidenza. Da lì tutto fluisce; vi si aggiungono, inoltre, l’ineluttabile e ciò che conviene all’intero cosmo, di cui sei parte. Ma per ogni parte della natura è bene ciò che la natura dell’universo produce e ciò che può preservarla. […] Niente di ciò che avviene secondo natura è un male ». (Marco Aurelio, Colloqui con se stesso)

 

In quanto frutto di un disegno razionale eterno e provvidenziale, bisogna imparare ad abbracciare, se non addirittura ad amare, quanto riserva il destino. L’atteggiamento di accettazione non va inteso come una rassegnazione passiva al corso degli eventi. Lo stoico non è un uomo che si ritira dal mondo. Anche nelle peggiori avversità, non smette di agire per il bene comune. Arriviamo così alla disciplina dell’azione.

 

La disciplina dell’azione

 

 

È un luogo comune rappresentare lo stoico come un filosofo che si ritrae dal mondo, che asseconda senza combattere quanto la sorte ha per lui in serbo. In un noto passo della Fenomenologia dello spirito Hegel scorge nello stoicismo una libertà astratta che si priverebbe della determinatezza:

 

« Questa uguaglianza a se stesso del pensare è ancora soltanto la forma pura, in cui nulla si determina. Parole di significato generale come “il vero”, “il bene”, “la saggezza”, “la virtù”, alle quali lo stoicismo è costretto ad arrestarsi, sono dunque senz’altro in linea generale elevate ed edificanti, ma poiché di fatto non possono giungere ad alcuna concreta espansione del contenuto, presto incominciano a venire a noia ». (G. F. W. Hegel, Fenomenologia dello spirito, a cura di G. Carelli)

 

La visione è molto riduttiva. Se è vero che nello stoicismo l’agire virtuoso diretto al bene e al vero non conosce ancora la storicità, non si deve dedurre un’assenza di determinatezza. Per Marco Aurelio

 

« È proprio dell’uomo che vive in una comunità rendersi conto di operare per la comunità e, per Zeus, volere che un altro membro della comunità se ne renda conto » (Marco Aurelio, Colloqui con se stesso)

 

L’ascetica stoica si nutre di un autentico impegno politico, nel senso più elevato di una prassi in vista del bene della collettività. La virtù e la libertà stoiche non sono affatto vuote e noiose. Sono abitate dall’esercizio quotidiano, dall’impegno ad agire secondo giustizia, ad aiutare i propri simili a vincere l’egoismo e le passioni. Per quanto lo stoico sia pronto ad accettare, data la sua immagine provvidenzialistica della natura, che le proprie azioni possano fallire, questo non lo esime dal perseverare nel disegno di costruire una società migliore.

 

Conclusione

 

Le tre discipline sono intimamente legate. Tra logica vissuta, fisica vissuta ed etica vissuta non vi è un ordine o una gerarchia. Per apprendere a giudicare bene, è necessario imparare a desiderare bene e ad agire bene. Posso giudicare con oggettività le mie rappresentazioni se mi esercito a distinguere quello che dipende da me da quello che non dipende da me. Ma il controllo dei miei desideri passa per l’esercizio di un agire che sa mettere da parte l’interesse egoistico in vista del bene collettivo. Vi è una virtuosa circolarità negli esercizi stoici. I Colloqui con se stesso riescono a esprimerla con rara efficacia, donandoci una delle più grandi lezioni della saggezza antica.

 

 10 marzo 2025

 









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