Discorsi sull'autodeterminazione dei popoli

 

La politica si nutre di simboli, miti e rappresentazioni atti a costruire “utili” narrazioni. Per edificare visioni del mondo, allo scopo di unire popoli e comunità, serve creare una legittimità che conservi o muti in una determinata direzione il sentire comune. Gli artifici maggiormente utilizzati per creare collettività di appartenenza e collettività d’identità sono la retorica politica e l’uso pervasivo di immagini che richiamano ad appartenenze comuni. Questi due linguaggi sono caratterizzati da grammatiche e da significati più o meno visibili, e hanno la capacità di sollecitare stati d’animo ed emozioni. La contrapposizione dialettica che sembra interessante da districare a questo punto è capire  vista la crisi dell’ordine politico internazionale edificato dopo la seconda guerra mondiale  se il discorso e la proliferazione dei diritti umani, funzionali a costruire un discorso di unione e di pace fra gli stati e i popoli, possa ancora essere utilizzato come impalcatura portante del principio di autodeterminazione o se, quest'ultimo  visti gli scenari di guerra  si è distorto e ribaltato nel suo opposto, ovvero nella chiusura identitaria e nella riaffermazione della narrazione della supremazia nazionale.

 

di Michele Mariani

 

Cesare Maccari, Cicerone denuncia Catilina (1880)
Cesare Maccari, Cicerone denuncia Catilina (1880)

 

La simbolica politica e i suoi effetti collettivi

 

Il linguaggio politico, come sostiene Lasswell, è il «linguaggio del potere nella misura in cui fare politica equivale a un esercizio di persuasione» (L. Cedroni, Politolinguistica. L’analisi del discorso politico). Non a caso la politica è una costruzione linguistico-simbolica che si va a definire in determinati contesti come pratica sociale, interpretativa e organizzativa delle comunità. La politica e l’attività discorsiva sono strettamente connesse e possono essere intese come confronto di idee, quindi come pratiche che non poggiano esclusivamente sulla forza. La comunicazione politica è un importante strumento di consolidamento e creazione del potere: essa viene utilizzata per catturare il consenso dei cittadini/elettori attraverso simboli e figure retoriche; è improntata a difendere valori e interessi di chi detiene il potere e a costruire un senso di appartenenza verso una particolare comunità. La comunicazione politica ha, come principio fondativo del suo agire, la capacità di suscitare, per mezzo della retorica, di simboli o di rituali ripetuti, stati d’animo ed emozioni funzionali a conservare le pretese del potere ed è un utile espediente per costruire attorno a sé la legittimità delle sue pratiche e dei suoi discorsi. L’indagine di come il potere si doti di una dimensione figurativa per raggiungere le sue finalità è al centro della simbolica politica, metodo di ricerca e di lavoro che connette diversi ambiti disciplinari tra cui la storia dell’arte, la filosofia e la politica. Questo ambito di ricerca che, in Italia ha come massimi esperti Giulio Maria Chiudi e Luigi Alfieri, si pone l’obiettivo di studiare il linguaggio simbolico e rituale della politica come autorappresentazioni con cui dotiamo di senso la realtà. Il simbolo infatti può essere definito come una coscienza liminare, una soglia, che tenta un avvicinamento tra gli immaginari e il reale. Ed è per questo utile comprendere il linguaggio politico come un insieme di codici, simboli e miti di cui si connota il potere e che va a interessare le nostre esistenze lavorando attraverso le dimensioni conscie e inconscie dei nostri processi cognitivi.

 

La comunicazione politica si occupa del simbolico con l’obiettivo di cementificare i sensi dell’agire coinvolgendo stati coscienziali, emozioni e stati d’animo. Vuole essere collante delle società ma, allo stesso tempo, ha la necessità di autorappresentarsi come legittimo, di guardare al passato e anche proiettare nel futuro il bisogno di appartenenza per nascondere la fragilità dell’esistenza. Potremmo definirlo come un centro di identificazione che ha che vedere con il Noi; motivo per il quale suscita un forte magnetismo emozionale.

 

Le origini del sociale si muovono da questa dimensione simbolica, rappresentativa e comunicativa, le quali provocano mutamenti nei centri emozionali dato che è insita nell’essere umano la volontà di agire nel mondo autorappresentandosi. La politica ha a che fare con una dimensione totemica come definita da Freud nell’opera Totem e Tabù. Il totem per Freud rappresenta una sorta di «spirito protettivo che rappresenta l’antenato del gruppo e che rende proibito il suo consumo» (S. Freud, Totem e Tabù). Nel politico e nella politica è evidente la ricerca di una comune origine e finalità come fondamento del suo stesso percorso storico. L’elemento retorico e simbolico ha la funzione di creare narrazioni di senso che possono avere il potenziale di unire o di dividere e rappresentano un elemento essenziale per definire ciò che siamo, ciò che non siamo e ciò che non vogliamo essere. Uno spazio atto a definire i confini di senso, le alterità politiche e a costruire un Noi “condiviso”.

 

Se i nazionalismi prendono piede un motivo c’è?

 

L'ordine multilaterale, basato sull'istituzione di organizzazioni internazionali e principi giuridici di mutuo riconoscimento –  edificato dopo la Seconda guerra mondiale –  sembra oggi perdere le sue stesse coordinate e il suo discorso di “verità”. Stretto tra il riemergere di ideologie identitarie, nazionaliste e imperialiste, i principi di uguaglianza e cooperazione tra gli stati –  costrutti a fondamento delle democrazie liberali –  fin dalla nascita sono apparsi “valori” di condivisione carenti nella costruzione di un'unione tra stati e tra popoli. L'affermazione universale dei diritti umani, base su cui poggia l'ordine post Conferenza di Yalta, resistito con non poche difficoltà alla guerra fredda, si è incrinato progressivamente nel momento in cui sulla scena mondiale sono rimasti, come unico stato egemone dell'ordine, gli Stati Uniti d'America. I grandi proclami di costruzione della pace e della fine della storia hanno creato le condizioni per un altro discorso simbolico e di verità: quello della neutralità ideologica. Le ideologie ritenute responsabili dei regimi totalitari e poi della distruzione bellica mondiale hanno finito per essere epurate e gettate nel tritacarne della storia. Ma la storia dovrebbe insegnare a non scadere nel nozionismo di date ed eventi e a non ripetere gli stessi errori. 

 

L’effetto sicuramente benefico è stato quello di "limitare" le prerogative sovrane degli stati nazionali contribuendo a “smantellare” le supremazie nazionali con il fine di legare tra di loro gli stati e provare ad edificare nuovi discorsi e simboli collettivi e di appartenenza. L’unione europea ne è un esempio: nasce con la stessa matrice e vulgata ideologica neutra e multilaterale, imperniata più su una cooperazione economicista che su valori condivisi di solidarietà e inclusione. Ma allo stesso tempo costruita con i suoi simboli e autorappresentazioni: la bandiera, l’euro, la cittadinanza. Potremmo affermare che il multilateralismo e la costruzione dell’Europa, presentandosi come due discorsi di verità, hanno finito per essere efficaci solo dal punto di vista simbolico e la loro valutazione è riscontrabile solo da questa ritualità e non dalla volontà politica di creare una vera cooperazione e unione tra gli stati. 

 

Questo nuovo discorso di verità apparentemente neutrale, ha assunto il connotato ideologico del neoliberalismo:

 

«Senza entrare nei dettagli di questi processi, il loro risultato più consistente riguarda l'appiattimento della vita di ognuno sulle pratiche atomizzate del lavoro e del consumo. Non possiamo più negare che ormai esista davvero un modo di vita occidentale, che non è però quello delle nostre «tradizioni» o delle nostre «libertà», e ancor meno quello dei nostri «valori» democratici, ma che consiste in uno stile ben peculiare, per non dire bizzarro, fondato sul continuo adattamento al mutare delle esigenze produttive e del consumo.» (Paolo Godani, Diserzione come potenza non belligerante di Franco Berardi)

 

Ciò ha portato a concepire la cooperazione tra gli stati – più che sull’assunto della giustizia sociale e del rispetto del principio all’autodeterminazione dei popoli – come una pratica libero scambista, mettendo da parte i buoni propositi tra gli stati e concependo la collaborazione solo dal punto di vista di un’integrazione economica, smantellando lo stato sociale e di conseguenza la stessa idea di democrazia e di diritti umani. La difficoltà di creare percorsi condivisi tra gli stati che vadano oltre il valore economico sembra ormai una realtà assodata. Vediamo assistere a proclami bellicisti, stati d’eccezione, conferenze diplomatiche pronte ad esplodere e un aumento esasperato delle spese militari.

 

Secondo chi scrive l’esportazione e la diffusione della democrazia e dei diritti umani è stata resa possibile con la promessa di far parte di un ordine di paesi che coniugavano democrazia e sviluppo economico, finendo per identificare il benessere sociale più nel consumo che nel godimento e nella rivendicazione politica dei diritti.

 

Premesso ciò cos’è che non abbiamo compreso del significato dei diritti umani? Che valore hanno questi diritti? Sono veramente universali? O hanno finito per essere stati formulati dall’Occidente, codificati in carte giuridiche, per poi non avere avuto una sostanziale applicazione nel resto del mondo? Sono riusciti a costruire un discorso condiviso di appartenenza all’umanità e all’idea secondo cui la vita è degna di essere vissuta, ha un valore in sé e non può essere tolta a nessuno? A tutte questi quesiti cercheremo di rispondere nel prossimo paragrafo.

 

 Kazimierz Wojniakowski, Camera del Senato di Varsavia nel Castello Reale (1806)
Kazimierz Wojniakowski, Camera del Senato di Varsavia nel Castello Reale (1806)

 

Esiste un fondamento possibile?

 

Jurgen Habermas si chiede nel suo saggio “Le ragioni dell’Europa” se un collante possibile, per l’unione, possa essere quella di costruire una visione universalizzante del diritto tramite una Costituzione che avrebbe dovuto elencare i valori condivisi di laicità, democrazia e inclusività, all’interno di un’analogia tra stati nazionali e dimensione sovranazionale, con il fine di promuovere un senso di appartenenza alla comunità europea. Il rispetto, la garanzia e il discorso sui diritti, infatti, non può concretizzarsi solo nella sfera dell'individuo, come soggetto del diritto, e nel riconoscimento della legittimità della legge come sostrato della sovranità da cui derivano i diritti. La garanzia dei diritti per sedimentarsi ha necessità di partire da un discorso di giustizia sociale che si muove nel riconoscere l'ingiustizia come base da cui si affermano i diritti.

 

Norberto Bobbio, nell’opera “L’età dei diritti”, cerca di trovare un fondamento che possa essere concreto e fattuale ai diritti e al loro riconoscimento su scala globale ripercorrendo la storia dell’affermazione delle varie «generazioni dei diritti». Per il giurista e filosofo il primo passaggio si è avuto con la costituzionalizzazione dei diritti nelle carte liberali; in secondo luogo la progressiva estensione dei diritti ne ha allungato il catalogo, introducendo i diritti politici e sociali. La terza tappa è rappresentata dall’entrata in vigore nel 1948 della Dichiarazione Universale dei diritti umani e la quarta tappa rappresentativa della regionalizzazione/settorializzazione del diritto che si basa sulla necessità di proteggere esigenze specifiche come: la parità di genere, i diritti per le persone razzializzate e infine il diritto di vivere per le generazioni future in un ambiente sano. Per Bobbio dunque: 

 

«I diritti non nascono tutti in una volta. Nascono quando devono o possono nascere. Nascono quando l'aumento del potere dell'uomo sull'uomo, che segue inevitabilmente al progresso tecnico, cioè al progresso della capacità dell'uomo di dominare la natura e gli altri uomini, crea o nuove minacce alla libertà dell'individuo oppure consente nuovi rimedi alla sua indigenza.» (N. Bobbio, L’età dei diritti)

 

Se dunque i diritti sono storici e nascono nell’età moderna, insieme con la concezione liberale della società, che esalta l’individuo e la proprietà, essi devono comunque essere percepiti come l’esito del conflitto sociale e della rivendicazione. Dunque sono a tutti gli effetti diritti politici che non derivano, né dalla natura umana, filone giusnaturalista, né da un contratto o come fuoriuscita dallo stato di natura, filone contrattualista. La genesi, che sembra oggi essere smarrita, è dunque da ricercare nei processi sociali e politici, come strutture all’interno del quale si delineano i conflitti sociali e in cui il bene comune diventa il fondamento dell’azione politica. I diritti vengono dal basso e il loro processo di realizzazione è frutto della partecipazione attiva alla società.

 

Dunque nascono come necessità di trovare un posto nel mondo come affermerebbe Hannah Arendt che si chiede se esiste «un diritto ad avere diritti» nella sua opera Le origini del Totalitarismo. La filosofa intendeva con questa espressione che «la privazione dei diritti si manifestava nella privazione di avere un posto nel mondo che dia alle opinioni un peso e alle azioni un effetto». Con questa espressione Arendt poneva l’accento sull’esclusione e sullo sradicamento come atto primario per la spoliazione dei diritti, ma anche definendoli come connotati politicamente e rivestiti di quell’aura rivendicativa. No possesso in termini materiali ma fattuali, dunque esclusivamente politici.

 

La critica mossa all’impianto liberale dei diritti, come diritti che difendono la sola sfera personale e privata degli individui, è palpabile. I diritti di stampo liberale non difendono né partono dalla rivendicazione politica, ma da una visione atomizzata di società, secondo la vulgata neutralista e contrattualista, che ancora oggi si afferma come discorso di verità. Il diritto ad avere diritti per Arendt si concretizzerebbe nell’appartenenza a una cornice nazionalista, senza la quale non potrebbero esistere diritti naturali nè tantomeno universali. L’appartenenza a una comunità è ciò che permetterebbe il riconoscimento, tale è la conclusione a cui arriva ripercorrendo i fatti storici della sua epoca. Ciò porterebbe a far decadere la concezione individuale del diritto per estenderla su un piano valoriale, pratico e politico. Per mettere in pratica questo metodo sono fondamentali, per Arendt come per Simone Weil, le emozioni e le relazioni, tra cui l’empatia e il bene – intesa la prima come riconoscimento dell’alterità e del valore intrinseco della vita di ogni persona; e il secondo come volontà di agire per perseguire la giustizia – i doveri reciproci che abbiamo nei confronti delle altre persone per permettere l'esercizio dei diritti, e la rivendicazione politica, come atto di consapevolezza di avere un posto nel mondo. Infatti la problematicità dei diritti sanciti dalla dichiarazioni borghesi del XVIII è evidente. Questi sono stati definiti per appartenenza di classe, riguardano la sfera individuale, non sono fondati sulle relazioni, le emozioni e neanche sulla giustizia; ma sul potere di esercitare la forza e la sanzione sugli altri per far valere un proprio diritto. Sono dei diritti come proiezione del potere dello stato, concepito come ente sovrano, depositario e legittimo proprietario della legge, a cui lui stesso è sottoposto, ma da cui deriva l’imposizione per il tramite della forza. Se il diritto diventa spendibile solo su un piano personale ecco che la collettività si dissolve e si atomizza nell’impossibilità di creare percorsi di condivisione reciproca. In questo modo il diritto finisce per essere un espediente per affermare una propria prerogativa “sovrana” non per costruire percorsi condivisi di giustizia. Weil dunque propone di usare la nozione di «obbligo verso ogni essere umano in quanto tale»; il bene dell’altro non è un diritto che l’altro possiede, è piuttosto un dovere al quale gli altri devono sentirsi obbligati. (S. Weil, La persona e il sacro). 

 

È possibile affermare l’universalità dei diritti umani? 

 

La proliferazione dei diritti dal piano nazionale a quello internazionale ha affidato, a quest'ultimo, la protezione dei diritti trasformando il nostro status giuridico in soggetti del diritto internazionale. Ciò ha spostato su un livello più alto, definito trasnazionale, la possibilità di agire contro il proprio stato, presso corti internazionali, se questo limita le libertà di singoli individui ma anche di interi popoli e comunità.

 

I diritti umani sono per Michel Foucault un «nucleo embrionale coperto da un’armatura giuridica che protegge dalla hybris (ossia la tracotanza) degli stati e dal loro strapotere» (M. Foucault, Collège de France del 1976, Bisogna difendere la società). Secondo il filosofo la guerra aveva violato la sacralità umana spersonalizzando la vita per il tramite dei regimi totalitari che si prefiggevano di annullare le differenze ed attuare un potere biopolitico e totalizzante sugli esseri umani. Con l’affermazione della Dichiarazione del 1948 furono affermati i diritti umani e la riscoperta dell’essere umano in quanto portatore di un valore che va al di là della sola applicazione giuridica di un diritto. La dignità umana è il concetto portante della Dichiarazione e collegata ai diritti umani significa riconoscere il valore che ogni persona possiede in quanto appartenente al genere umano. Detto ciò possiamo affermare che i diritti umani hanno creato un collante di condivisione globale di valori che vadano oltre gli spiriti individualisti delle nazioni? Può esistere un catalogo minimo di diritti che vada oltre i singoli diritti nazionali? Con l'adesione della maggior parte dei governi alla Dichiarazione universale dei diritti umani il problema del fondamento ha trovato la sua "soluzione"?

 

La Dichiarazione senza ombra di dubbio rappresenta la manifestazione dell'unica prova con cui un sistema di valori può essere considerato umanamente fondato e quindi riconosciuto. La realtà è ben distante da questo riconoscimento universale per almeno due motivi: il primo è dato dal fatto che appartengono a una determinata visione del mondo e a una determinata cultura, quella occidentale, il secondo perché nel fissare principi ritenuti universali si pretende di omologare l’intera umanità a dei codici e delle prassi che potrebbero non essere riconosciute in altri luoghi e culture. La stessa Dichiarazione 1948 manca di uno sguardo più ampio che possa proteggere efficacemente tutti i popoli. Innanzitutto non è giuridicamente vincolante e il loro rispetto è rimesso alla discrezionalità statale. Inoltre nel momento della sua emanazione bisogna tener presente che molte delle nazioni del sud globale (gli stati africani, del sud est asiatico e latino-americani) erano sotto il dominio coloniale proprio di quelle nazioni che avevano sottoscritto la Dichiarazione universale dei diritti umani (per esempio Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna). Discorso più che attuale, dato che ancora oggi violenze, abusi e guerre sono state perpetrate in nome di fantomatiche categorie politiche come la libertà e la democrazia.

 

In ogni caso porre a fondamento dei diritti umani la dignità può però essere considerato un vettore costituzionale di partenza importante anche se non assoluto. Dobbiamo intendere la dignità umana come un valore metagiuridico (un concetto che si basa sul riconoscimento del valore dell’altro in quanto persona e che oltrepassa la sfera giuridica). Partire dal concetto di dignità è cruciale per arrivare a un’effettiva tutela dei diritti delle persone e dei popoli. Essa, infatti, può essere definita come un concetto che guarda alle differenze e che è volto a riconoscere l’alterità. La sfida posta alla base di ciò è trovare delle politiche che sappiano riconoscere l’unicità e la differenza degli esseri umani. La dignità umana si collega all’empatia, alle emozioni, alla forza di sentire le sofferenze degli altri, le quali permettono di sentire le distanze e in qualche modo anche di annullarle: il riconoscimento dei diritti, infatti, passa anche attraverso il loro radicamento nelle emozioni. Il processo di riconoscimento passa inevitabilmente da tutte queste categorie la dignità umana, la storia, le emozioni, le relazioni, il bene, la giustizia, il conflitto sociale, l’avere un posto nel mondo e grazie alla costituzione di soggettività etiche – soggettività che non hanno bisogno di affermarsi sugli altri, che non utilizzano il diritto come merce di scambio, né come forza per dominare e gerarchizzare gli esseri presenti sulla Terra e la Terra stessa. 

 

Recuperando Bobbio, Arendt e Weil possiamo concludere affermando che i diritti si evolvono e lo fanno come pratica sociale e conflittuale, come mezzo di rivendicazione e per esistere hanno bisogno di una co-umanità che sappia riconoscersi nella giustizia e nell’empatia come dei fini in sé e non come mezzi per raggiungere dei tornaconti individuali. Ripensare i diritti umani oggi significa avere il dovere di concepirli in una chiave politica e come spazio da abitare con gli altri per fondare una coesistenza pacifica. Una visione politica rivoluzionaria per uscire fuori dal monadismo dei nazionalismi imperanti. L’ordine internazionale e l’unione europea andrebbero ripensati e ricostituiti su legami di solidarietà e percependo l’ingiustizia come base per attivarsi per cambiare l’esistente. L’obbligo chiama alla responsabilità gli uni verso gli altri e non alla difesa di spazi d’identità su base individuale e nazionale. Rispetto ed empatia, avrebbero affermato Arendt e Weil, per continuare a immaginare una dimensione simbolica come uno spazio di condivisione in grado di parlare ai cuori e alle emozioni, non come spazio delimitato da mura, confini e barriere. Il terreno emozionale ci mette in contatto nel pensiero e nell’azione, non ci astrae dalla realtà e non ci fa arrendere a stati di cose predeterminati; ci permette di andare oltre uno stato di chiusura per ritrovare una dimensione solidale tramite cui immaginare società post nazionali. 

 

27 marzo 2025

 








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