Il salto del calabrone

 

Nell'Unione Europea priva delle direttive di Washington e ostaggio di terrore e furia verso il vicino russo, s'impone la politica del riarmo. Ci sono tanti modi per commentare il guerreggiante discorso di Ursula Von der Leyen sul progetto ReArmEurope, ma forse quella del salto del calabrone è la metafora più adatta per spiegare in che razza di guai ci stiamo cacciando. 

 

di Michele Rossi

 

 

Tra gli animali che saltano, come i canguri, le pulci o la rana toro, pochi considerano il povero calabrone, che riesce a stare in volo solo fin quando non realizza di pesare troppo per le sue minute ali – o almeno, così dicono i cantastorie. Quando è confuso dalla luce artificiale, l’insetto continua a compiere lunghi giri per andare a sbattere contro lo stesso led fino a spezzarsi le zampe e crepare, solo e dimenticato, in qualche fessura. Il calabrone non potrebbe volare; riesce a farlo solo a condizione di raccontarsi un sacco di balle. Insomma, il salto del calabrone è molto simile alla nuova politica dell’Unione Europea sulle armi: contraddittoria nelle premesse, confusa nella realizzazione, inquietante nei suoi sviluppi presenti e futuri. E forse, prima di finire a decomporsi in qualche angolo dimenticato del globo, quel che resta dell’Unione Europea dovrebbe pensare bene a quali luci seguire. 

 

Ursula Von der Leyen è stata chiarissima: l’Europa deve riarmarsi, cioè aumentare le proprie spese militari per fronteggiare una futura possibile minaccia russa.

La prima premessa a questa tesi, sparsa come il prezzemolo in tutte le grandi testate, è che il Cremlino sta spendendo più dell’UE per potenziare il proprio arsenale. Peccato che il noto think tank bolscevico “Osservatorio Conti Pubblici Italiani”, sotto la guida del turbo-putiniano Carlo Cottarelli, abbia smentito quest’idea: l’Europa dei 27 spende ad oggi diversi miliardi in più della Russia in ambito militare; quindi, casomai, il problema non dovrebbe essere spendere di più, ma meno e meglio. Un ritornello familiare, visto che è la classica risposta sbattuta in faccia a tutte le richieste di flessibilità sul welfare: “Non possiamo aumentare i fondi su sanità, istruzione, lavoro: guardate quanti sprechi! Dobbiamo spendere meno e meglio, non c'è alternativa!”

Già, peccato che questo argomento, ripetuto da anni da tutti i pappagalli pro-austerità – per restare in tema di animali – sparisca magicamente discutendo di armamenti: Ursula prevede un finanziamento monstre da 800 miliardi di euro, sciogliendo i lacci e lacciuoli che bloccano gli investimenti nel sociale per garantirsi una bella batteria di mine antiuomo e altri giocattoli (comprati da chi, lo vedremo più avanti). 

 

Tutto, e questa è la seconda premessa, per fronteggiare la terribile minaccia russa che potrebbe spazzare via le deboli difese europee in poche settimane. Eppure, qualcosa non torna: non era la stessa Ursula Von der Leyen nel 2022 ad affermare, restando seria, che l’armata russa era allo stremo, che i caccia restavano a terra perché privi di pezzi di ricambio, che per alimentare i droni erano costretti a estrarre chip da lavatrici e frigoriferi?

Ma suvvia, meglio non essere troppo severi: all'epoca delle prime sanzioni anti-russe, menti eccelse come quella di Mario Draghi millantavano il crollo imminente dell'economia di Mosca. Crollo, ovviamente, mai avveratosi.

Se, poi, diamo retta a quanto scrivono ancora oggi molti dei nostri competentissimi giornalisti, l'armata russa non riuscirebbe a riconquistare l’area di Kursk occupata dagli ucraini e senza l’aiuto della Corea del Nord non sarebbe neppure in grado di avanzare.

È questo l’esercito che dovremmo abituarci a temere? E che dire della protezione della NATO, dell’articolo 5, dell’immensa superiorità militare dell’Alleanza Atlantica che, se volesse, potrebbe schiacciare Putin come un tafano?

Se è bastata l’elezione di Trump – il quale, per inciso, ha già governato dal 2016 al 2020 senza mai uscire dalla NATO – per mettere in dubbio l’efficacia dell’Alleanza, non sarebbe meglio uscirne una volta per tutte, come da quei gruppi whatsapp in cui si viene inseriti a tradimento e non scrive mai nessuno?

 

Domande inquietanti, giustamente schivate dalla gran parte degli intellettuali italici, che per fortuna lasciano il posto a qualche certezza. Jacopo Jacoboni, firma de La Stampa non certo accusabile di pacifismo, scrive in un recente articolo che «UE e Gran Bretagna possiedono già un numero di testate nucleari sufficienti per incenerire qualunque nemico che avesse la sciagurata idea di attaccare le capitali europee». Non solo, continua, visibilmente su di giri, Jacoboni: «Ognuna di queste testate è enormemente più potente della bomba di Hiroshima, per capirci. Nel novembre 2023 – aggiunge il nostro affezionatissimo – Parigi testava con successo il missile balistico intercontinentale M51» che sarebbe «in grado di trasportare 10 testate atomiche, ciascuna diretta su un obiettivo diverso. Ogni lancio, equivarrebbe più o meno alla distruzione atomica di un paese di medie dimensioni.»

Insomma, roba forte, metallo pesante, full metal jacket!

Tralasciando la retorica che parla di ordigni atomici come fossero carri armati di Risiko, questo è lo stesso argomento, rovesciato, sostenuto dagli intellettuali accusati di putinismo in tutto il mainstream: la Russia è una potenza nucleare, e le potenze nucleari non le puoi sconfiggere, perché se vengono messe all’angolo fanno saltare il banco e buona parte del pianeta. Se vale per Mosca, dovrebbe essere lo stesso per Parigi e Londra, salvo rifugiarsi nell’illusione che le democrazie, essendo di razza superiore agli altri paesi, preferiscano il martirio allo sblocco dei codici di lancio.

Perché la Russia dovrebbe invadere l’UE, facendo peraltro scattare l’articolo 5 della NATO, per venire annientata dalle atomiche anglo-francesi? Putin è forse pazzo? E se lo è, come mai non ha ancora preso spunto dal macellaio Harry Truman per nuclearizzare Kiev seguendo l’esempio di Hiroshima? Insomma, quanto a premesse il piano ReArm Europe sembra un po’ pericolante. 

 

Le cose non migliorano se si considera la realizzazione di questo fantomatico piano di riarmo, soprattutto buttando un occhio ai suoi principali sponsor. Macron è un’anatra zoppa – per restare in tema di animali – ed è alquanto esilarante notare quanto spazio occupa nelle prime pagine dei giornali ogni volta che apre bocca. Il suo gradimento interno è da diverso tempo ai minimi, il governo che presiede è debolissimo e senza i gonzi alle opposizioni pronti a levargli le castagne dal fuoco sarebbe già collassato. Il nuovo cancelliere tedesco Merz ha bisogno dei socialdemocratici di Scholtz, che già borbotta. Tra i big, l’unico stabilmente in sella è l’inglese Starmer, a patto che la Commissione torni sui suoi passi e consideri il Regno Unito parte dell’Unione Europea, cosa che non è.

D’altronde, si sa che il “giardino ordinato” occidentale è da sempre a geometrie variabili, a seconda della convenienza politica…

 

Forse è anche per questo che al momento si parla di “esercito europeo” per indicare quello che in realtà sarebbe un incremento degli eserciti nazionali. Sono i singoli Paesi, infatti, a poter aumentare le proprie spese militari, mentre parlare della costruzione di un esercito dell’UE è come discutere di bollette durante una gang-bang: un argomento lunare.

Il salto del calabrone-Ursula rischia di diventare un triplo carpiato, nel momento in cui ci si chiede: a quali interessi risponderà questo meraviglioso esercito europeo?

In uno Stato sovrano l’intervento militare è subordinato – si spera – ai suoi interessi geopolitici; ma cosa succede se si crea un esercito europeo senza una politica comune europea? Chi prende le decisioni di inviare truppe, mobilitare carri armati e attivare le difese anti-aeree? A che serve creare un plotone che parli la stessa lingua e usi gli stessi strumenti di morte se poi il comando supremo dovrà costantemente mediare tra Macron e Meloni, tra Orban e Sanchez? Tra le varie opzioni, si spera quantomeno che tale comando supremo non venga affidato all’attuale Alto Rappresentante, Kaja Kallas, convinta che dovremmo dichiarare guerra non solo alla Russia, ma anche alla Cina. In pratica, un suicidio politico in piena regola.

 

Infine, bisognerebbe chiedersi come verranno impiegati questi 800 miliardi: si creerà un’industria UE degli armamenti o si farà come coi vaccini anti-Covid, sganciando miliardi a Pfitzer e Moderna, diventando nei fatti ancora più dipendenti da Washington alla faccia della ritrovata autonomia europea? Non è dato sapere. 

 

Dulcis in fundo, occorre volgere lo sguardo al futuro prossimo e chiedersi che ne sarà di questa nuova UE fondata sulle armi: imiterà il calabrone, che a furia di auto-ingannarsi finisce per incenerirsi da solo?

Fuor di metafora: cosa succede se Ucraina e Russia firmano una tregua con la benedizione di Trump? L’Europa resta da sola con l’elmetto calato in fronte e un pericoloso cerino in mano?

Per dare un'idea di quanto l'Unione Europea sia fuori tempo rispetto all'evoluzione diplomatica, basta ascoltare ciò che il Segretario Generale della NATO, Mark Rutte, ha dichiarato pochi giorni fa: mentre in Europa siamo fermi alla risoluzione del luglio 2024, con la quale il Parlamento giudica irreversibile l'ammissione dell'Ucraina nella NATO, Rutte ci apre una botola sotto i piedi, affermando che l'entrata di Kiev nel Patto Atlantico è del tutto fuori discussione; laddove Commissione e Parlamento pendono dalle labbra della Kallas e avallano le sue dichiarazioni anti-russe, il segretario dell'Alleanza smonta tutto con una semplicità disarmante: «Russia is there, and Russia will not go away» - la Russia è lì, e non se ne andrà.

Addirittura, udite udite, per Mark Rutte non solo la Russia non sparirà come le zanzare ai primi geli, ma «l'Europa e gli Stati Uniti dovrebbero normalizzare i rapporti con la Russia con la fine della guerra in Ucraina». 

 

Ma se il Segretario Generale della NATO si esprime in questi termini (con toni che, per inciso, fino a un mese fa erano considerati putiniani), sancta simplicitas, per quale dannato motivo l'Europa dovrebbe riarmarsi?

La confusione è grande sotto il cielo, ben rispecchiata dalla manifestazione pro-Europa lanciata da Michele Serra: consapevole di aver promosso un'adunata per un concetto tanto vago quanto "la mamma" o "il guanciale nella carbonara", il buon Serra si è rassegnato a trasformare quella di sabato nella piazza «di quelli che non ne hanno idea, eppure che vogliono fare qualcosa».

Qualche decennio fa uno spazio simile si sarebbe riempito seguendo nobili slogan come "da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i propri bisogni"; oggi ci si accontenta di "ognuno come gli pare, ognuno come si sente".

Obiettivi chiari e lungimiranti insomma, simili a quelli della diplomazia di Bruxelles, che ci lasciano in preda alla disperazione: quando arriva l'ambulanza?

 

Dopo aver squadernato tante domande e scoperto quanto è grave l'auto-inganno del calabrone, bisogna rispondere al quesito più importante: cosa possono fare i cittadini europei, le forze politiche, le associazioni che ancora credono nella possibilità di un’Europa autenticamente pacifica e democratica, opposta all’attuale assetto dell’Unione? 

 

Innanzitutto, i partiti europei che non volessero precipitare insieme al calabrone-Ursula, invece di votare risoluzioni del Libro Bianco e combattere guerre immaginarie contro Pechino, dovrebbero ingaggiare una battaglia reale e politica in Parlamento: ad esempio, agganciando la flessibilità sulle armi allo sblocco dei fondi per l'economia reale: se si deroga all’austerità sulle armi, allora si può fare su tutto, dal lavoro all’energia, dalla sanità alla scuola.

In secondo luogo, occorre riattivare immediatamente i canali diplomatici con la Russia. Se è vero quello che scrivono i vari Jacoboni, poco importa che Mosca possieda migliaia di testate atomiche contro le duecento di Parigi e Londra: per l’annientamento di un paese una sola testata è più che sufficiente. Se la situazione è questa, si ha uno stallo alla messicana; se, invece, la superiorità russa è davvero così schiacciante, allora investire ottocento miliardi per mettersi in pari tra dieci anni contro un’invasione imminente è del tutto inutile. In entrambi gli scenari, diplomazia e negoziazione sono necessari come l'aria, ed è per questo che il termine “escalation” denota ancora – grazie al cielo! – un male da evitare a ogni costo. 

In terzo luogo, è vitale combattere una battaglia innanzitutto culturale per evitare che questa Europa, l’Europa delle Ursula, delle Kallas e dei Draghi, diventi sinonimo di Europa in generale. Se così accadesse, vista anche la crescita nello spazio istituzionale del Vecchio Continente di movimenti autoritari e di estrema destra, non è difficile immaginare dove finiremo: criticare il riarmo, la retorica bellicista, l’Unione Europea, diventerebbe sinonimo di anti-europeismo, euroscetticismo, collusione con il nemico, alto tradimento, e chissà cos’altro.

 

Nella cosiddetta “era del riarmo”, per citare Von der Leyen, il rischio di deriva autoritaria è sempre dietro l’angolo; l’unico modo per evitarlo è invadere le piazze con gli obiettivi chiari e le bandiere giuste, quelle della pace, magari accompagnate da uno striscione speciale: “LA NOTTE CALABRONI, LA MATTINA…

 

 

17 marzo 2025

 




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