La libertà. Un percorso concettuale

 

La libertà è dal punto di vista filosofico uno dei concetti più complessi e controversi.

Per fare chiarezza proveremo ad articolare diverse distinzioni. Cercheremo di tagliare all’interno di questa nozione fluida delle direzioni, delle linee di forza che possano costituire dei punti di riferimento per la riflessione.

 

di Salvatore Grandone

 

 

La libertà è dal punto di vista filosofico uno dei concetti più complessi e controversi.

Per fare chiarezza proveremo ad articolare diverse distinzioni. Cercheremo di tagliare all’interno di questa nozione fluida delle direzioni, delle linee di forza che possano costituire dei punti di riferimento per la riflessione. Una prima operazione importante è distinguere libertà esterna e libertà interna.

 

Nell’esercizio della libertà entrano in gioco infatti due componenti: la volontà (elemento interiore) e il mondo esterno. È evidente che i due aspetti interagiscono, che la separazione tra interno ed esterno non è così netta, che l’uno non si dà senza l’altro. Ma prima di problematizzare le distinzioni è opportuno delinearle.

 

Iniziamo dalla libertà esterna.

 

La libertà esterna

 

H. Rousseau, Il sogno, 1910
H. Rousseau, Il sogno, 1910

L’assenza di costrizioni

 

Per il senso comune la libertà è un agire senza costrizioni. Sono libero quando ad esempio posso spostarmi da una città a un’altra senza che nessuno me lo vieti. Sono libero se posso muovere il mio braccio senza che qualcosa lo ostacoli.

 

La libertà intesa in questo senso non è il puro “fare quello che si vuole”, ma il “fare quello che il mio volere può fare”. In altre parole, sono libero se mi è consentito di fare quello che posso e che voglio.

 

In base a questa prima definizione di libertà, sono tanto più libero quanto meno vi sono impedimenti al mio agire.La libertà sembrerebbe qualcosa di assoluto, di indivisibile e di individuale che un qualsivoglia vincolo esterno non farebbe altro che frammentare. La legge si opporrebbe allora alla libertà, in quanto generatrice di vincoli al potere di agire. Ma è realmente così?

 

È noto come Thomas Hobbes (1588-1679) nel Leviatano (1651) metta in dubbio l’idea che l’assenza completa di costrizioni sia la condizione della libertà. In un ipotetico stato di natura senza vincoli – se non quelli derivanti dalla natura stessa –, gli esseri umani vivrebbero in una situazione di estrema precarietà. Ognuno cercherebbe di prevaricare il proprio simile per accaparrarsi ciò che desidera.

 

Regnerebbe uno stato di insicurezza, al punto che la libertà stessa sarebbe minata. Infatti, il conflitto permanente instaura un clima generale di paura per cui nessuno si sente più libero di “fare quello che vuole”. Ecco giunti a una prima svolta: la libertà intesa come assenza di impedimenti all’agire non è una definizione sufficiente di libertà.

 

Palma il giovane, Allegoria della pace e della giustizia, 1620
Palma il giovane, Allegoria della pace e della giustizia, 1620

La legge

 

Si può allora pensare che una vera libertà esista solo nei confini di ciò che stabilisce la legge. Ad esempio, se ognuno potesse guidare a qualsiasi velocità senza subire alcuna sanzione, spostarsi in autovettura diventerebbe impossibile. Prendere la macchina equivarrebbe a mettere in pericolo la propria incolumità: a causa di sé e dell’altrui condotta un grave incidente sarebbe altamente probabile. È il codice stradale che rende quindi possibile la libertà di guidare la macchina.

 

Un discorso analogo si potrebbe estendere al diritto in generale: sono le leggi che permettono di esercitare la libertà, al di fuori di questi vincoli essa sarebbe impossibile.

 

D’altronde, il diritto trova la sua massima espressione e un ordine rigoroso solo all’interno dello Stato. Così, secondo Hegel (1770-1831), la libertà si realizza pienamente all’interno di quest’ultimo. Lo Stato non opprime la libertà, poiché è grazie alle sue istituzioni che questa prende forma. Ma è sempre così?

 

Il diritto alla disobbedienza

 

Dovremmo dire che la libertà consista nell’obbedienza alle leggi. Si è liberi obbedendo alla legge, mentre disobbedire è rinunciare alla propria libertà. La questione però non è così semplice. In uno Stato totalitario o autoritario, la legge genera dei vincoli che avvantaggiano alcuni a detrimento di molti. Si è nella situazione, ben descritta dal sofista Trasimaco (V secolo a.C.), di una giustizia che coincide con l’utile del più forte. In questo caso obbedire alla legge significa tutelare gli interessi di pochi. In uno Stato del genere sarebbe concessa una certa “libertà negativa”, ossia il non essere impediti nel compiere alcune azioni.

 

Ma non vi è spazio per una libertà più profonda, positiva, cioè l’obbedire alle regole che è la collettività stessa a darsi. Questo può accadere solo in uno Stato di diritto, in una democrazia in cui vige il principio di sovranità popolare. Eppure, anche uno Stato democratico può definire i confini della libertà in un modo che per alcuni individui risulti ingiusto. Siamo di fronte al conflitto tra legale e legittimo. Qui si potrebbero fare dozzine di esempi di cronaca. Sono libero quando obbedisco alla legge che mi impedisce di soccorrere un barcone alla deriva di extracomunitari o quando seguo la mia coscienza che mi comanda di aiutare il prossimo? Si tratta di dilemmi ben noti fin dai tempi antichi: si pensi al celebre caso di Antigone. È però soprattutto in età moderna che la questione è stata teorizzata.

 

Tra i suoi interpreti più noti penso a David Thoreau (1817-1861) che nella Disobbedienza civile (1849) sostiene come il riconoscimento di un diritto alla rivoluzione implichi quello di un diritto alla disobbedienza. Perfino un governo democratico può subire gravi deviazioni e abusi. Nel suo pamphlet Thoreau si riferisce in particolare alla guerra contro il Messico intrapresa da un numero relativamente piccolo di persone che utilizzavano il governo come strumento, senza il vero consenso del popolo. 

 

In frangenti simili, cioè quando le richieste dello Stato risultano non legittime alla coscienza dell’individuo, si è liberi non nella legge, ma al di fuori di essa, violandola. A meno di non ricadere in un’impasse e ritornare ad affermare che la vera libertà sia l’assenza di costrizioni, dobbiamo approfondire le condizioni interne della libertà. La questione della libertà non si risolve nella riflessione sui vincoli esterni che la limitano o che la mettono in essere. Vanno esaminati anche i fattori interni.

 

G. Pellizza, Il quarto stato, 1907
G. Pellizza, Il quarto stato, 1907

La libertà interna

 

Assecondare i desideri

Sul versante interiore, si potrebbe pensare che la libertà consista nell’assecondare senza freni i propri desideri. Questa posizione è ben espressa da Callicle nel Gorgia di Platone (428 a.C.– 328 a. C). Per essere felici, e dunque pienamente liberi, bisogna far crescere i propri desideri, mettere in opera tutti i mezzi a nostra disposizione per appagarli.

 

Resistere ai desideri significherebbe rinunciare alla propria natura, non essere più liberi.

La critica di Socrate a Callicle si poggia su una tradizione filosofica ben consolidata che trova in Eraclito (VI a.C.-V a.C.) uno dei precursori. Non porre limiti ai desideri vuol dire cedere alla dismisura, incendiare la propria anima. Il ludopatico che asseconda il suo desiderio distrugge se stesso: la sua libertà di giocare senza vincoli mette in pericolo questa stessa libertà – e con essa molto altro. L’alcolizzato che non riesce a controllare il suo impulso mina la condizione della sua libertà di bere e la sua stessa esistenza.

 

Siamo in un caso di figura speculare a quello della libertà esterna, e per certi versi più estremo. L’assenza di vincoli interni non solo non è una condizione necessaria e sufficiente all’esercizio della libertà, è perfino controproducente.

 

La padronanza di sé

 

Nella filosofia antica, la questione della libertà è strettamente legata alla padronanza di sé. È libero colui che pone da sé i propri limiti, che segue le regole imposte dalla sua stessa ragione. La vera libertà è il potere che si ha su di sé: essa si raggiunge solo coltivando l’autarchia.

 

In questa direzione non solo Socrate (470/469 a.C.-399 a. C.), ma soprattutto Diogene il cinico (412 a.C.-323 a.C.) rappresenta un esempio di libertà. Ricordiamo il celebre aneddoto su Diogene e Alessandro Magno (356 a.C.-323 a.C.). Il grande condottiero si rende disponibile a soddisfare qualsiasi richiesta del filosofo. Diogene lo prega di spostarsi perché gli fa ombra. In questa storiella si scontrano due concezioni del potere e, di conseguenza, della libertà. Da una parte, il potere transitivo di Alessandro Magno, il quale può tutto perché ha tutto. Grazie ai suoi immensi beni, gode di una libertà in apparenza assoluta: può infatti assecondare ogni suo desiderio.

 

Dall’altra, si contrappone la concezione intransitiva del potere di Diogene il cinico. Il vero potere è quello che si ha su di sé. Diogene non dipende da nulla; non ha bisogno di andare in giro armato con un seguito di soldati; per vivere gli basta un mantello di tessuto grezzo, la bisaccia con i lupini e il bastone. L’aver eliminato tutto ciò che è superfluo e il costante esercizio nel sopportare il dolore derivante dalle privazioni lo rendono di gran lunga più libero di Alessandro Magno. Quella del filosofo cinico è una condizione che ha come modello di perfezione gli dèi e in alternativa gli animali che sono più vicini dell’uomo comune alla piena autosufficienza.

 

Le idee abbozzate da Diogene saranno riprese dagli stoici. La famosa distinzione di Epitteto (58 d. C.-138 d. C.) tra ciò che dipende da noi e ciò che non dipende da noi approfondisce il concetto di autarchia. L’unica libertà che ha l’uomo è quella di disporre di se stesso: essa trova il suo compimento nella piena padronanza dei desideri, delle opinioni e delle azioni.

 

La libertà di scegliere e l’autonomia

 

A. Carracci, Eracle al bivio, 1595-1596
A. Carracci, Eracle al bivio, 1595-1596

 

Con il cristianesimo il mondo interiore della libertà si complica. Nasce il concetto di libero arbitrio. Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, e in virtù di questa comunione gli ha dato la possibilità di essere il principio delle proprie azioni, di essere causa incausata. Ma questa libertà non si sarebbe manifestata che in modo negativo, attraverso il peccato. L’uomo ha disobbedito e ha pagato l’esercizio della libertà con uno stato di deiezione. La libertà sarebbe così diventata per l’uomo quasi una condanna, visto che essa ha determinato una condizione di infelicità. Siamo entrati insomma in una prospettiva molto diversa da quella antica.

 

Da queste nuove coordinate prenderanno le mosse i filosofi moderni, cercando di integrare alcuni grandi insegnamenti del pensiero classico-ellenistico.

Tra le posizioni più rilevanti occorre ricordare almeno quelle di René Descartes (1596-1650), Baruch Spinoza (1632-1679) e Immanuel Kant (1724-1804).

Nel primo la questione del libero arbitrio è riletta in chiave secolarizzata. Il filosofo francese mostra come la libertà non possa ridursi alla possibilità di scegliere indifferentemente tra due o più opzioni. Come osserva nelle Meditazioni metafisiche (1641) e in seguito in una celebre lettera al padre Mesland (9 aprile 1645), questa è la libertà dell’indifferenza, il grado zero della libertà.

 

È interessante come un’altra definizione comune di libertà, oltre a quella già detta del poter agire senza costrizioni, sia proprio il grado zero di libertà di cui parla Cartesio. Mi trovo ad un bar e posso scegliere tra bere un caffè o un cappuccino. La scelta mi è indifferente, una vale l’altra. Cartesio direbbe appunto che questa non è la libertà nella sua accezione più profonda.

 

L’autentica libertà consiste nell’adesione spontanea a un giudizio evidente della mia ragione. Di fronte, ad esempio, all’evidenza che il fumo nuoce gravemente alla salute, decido di smettere di fumare.

Ci ritroviamo però nella variante “laica” del libero arbitrio del messaggio cristiano. La libertà si mostra non tanto nel seguire quanto detta il giudizio razionale, ma nel fatto che l’adesione sia spontanea, che in linea di principio si possa agire contro ragione.

 

Ancora una volta la libertà sarebbe concepita più negativamente che positivamente. È nel non obbedire all’evidenza che emergerebbe la volontarietà e la non necessità dell’azione.

Con Spinoza, si compie il passo ulteriore che Cartesio non vuole e, da buon cristiano (cattolico), non può fare. Tra libertà e necessità non c’è alcuna opposizione: anzi la vera libertà consiste nella comprensione profonda delle necessità che governano la propria esistenza.

 

Si è liberi quando la necessità è accolta in modo attivo, perché la si conosce fin nelle più intime fibre. Non si è liberi quando la necessità è subita, a causa dell’ignoranza delle cause che regolano la vita. Sia in Cartesio sia in Spinoza la questione della libertà è ripresa e reinserita in un dialogo profondo con la tradizione antica. Solo per rilevare un aspetto saliente, si pensi a come in entrambi i pensatori il rapporto tra giudizio e volontà risenta di una rilettura moderna dello stoicismo. Con Kant si aggiunge un ulteriore essenziale tassello. Il filosofo effettua un parziale capovolgimento di prospettiva. Al centro della riflessione è ora un nuovo concetto: l’autonomia.

 

Come risolvere l’antinomia della ragione tra l’esigenza di porre una causa incausata all’origine dei fenomeni e quella di vedere la natura come retta da un’intrinseca necessità? Ripercorro brevemente il noto ragionamento kantiano per mettere in risalto il suo contributo alla nostra discussione. L’uomo è a un tempo un essere sensibile e intelligibile. In quanto essere sensibile, le sue azioni sono governate dalla necessità del mondo fenomenico; in quanto essere intelligibile, lo dobbiamo pensare libero. Ma in che senso?

 

La libertà risiede nell’adesione alla legge morale, all’imperativo categorico presente in ognuno di noi. Quando mi determino ad agire solo in base a questo imperativo, il “tu devi!”, allora sono libero. Quando la mia volontà agisce senza essere mossa da alcun interesse personale, sono libero; quando la mia volontà agisce in modo che la massima dell’azione sia universalizzabile, sono libero; quando nel mio agire morale gli altri sono considerati non mezzi ma fini, sono libero.

 

L’autonomia diventa sinonimo di libertà. La libertà si manifesta così in modo positivo: si è liberi non perché si potrebbe non assecondare un giudizio evidente, ma perché si sceglie l’autonomia, l’obbligazione, il conformarsi alla legge morale.

 

Si tratta sicuramente di un’importante riformulazione del problema della libertà. Con essa emergono nuove difficoltà concettuali: in primis il formalismo dell’approccio kantiano, ben visibile in alcuni esempi proposti dallo stesso filosofo. Il più eclatante è forse quello del filantropo (Fondazione della metafisica dei costumi). Per rimanere coerente con il principio di autonomia, Kant arriva a sostenere che l’agire del benefattore è pienamente morale se supponiamo che aiuti il prossimo nonostante «un temperamento freddo e indifferente verso il dolore altrui» e l’essere «rabbuiato da un suo dolore che spegne ogni partecipazione al dolore altrui». Sarebbe allora difficile attribuire un agire morale ai santi o ai martiri o semplicemente a coloro che fanno del bene spinti da un sincero amore per il prossimo.

 

La prospettiva di Sartre: l’esistenza prima dell’essenza

 

E. Munch, Malinconia, 1894
E. Munch, Malinconia, 1894

Nella filosofia contemporanea, la questione della libertà si complica ulteriormente. Alle tradizionali disamine filosofiche, si sono aggiunte le ricerche scientifiche, soprattutto di carattere neurologico ed evoluzionistico.

 

Insomma, oggi sarebbe molto riduttivo affermare che il problema della libertà appartenga solo alla filosofia, al diritto e alla politica. Gli studi come quelli di Benjamin Libet (Mind Time. Il fattore temporale della coscienza), di Michael Gazzaniga (Chi comanda? Scienza, mente, libero arbitrio), di Daniel C. Dennet (L’evoluzione della libertà) – solo per menzionare alcuni nomi più noti – mostrano come il tema possa essere riletto all’interno di nuove prospettive, in cui il “quantitativo” e il “misurabile” entrano in un ambito che fino a un secolo fa sembrava rientrare nel “qualitativo”. Tuttavia, queste nuove ricerche non sempre aggiungono sotto l’aspetto concettuale nuovi elementi. Le disamine appena viste (libertà esterna-libertà interna, libertà-necessità, libertà-autonomia, libertà assoluta-libertà vincolata) sono riprese, e a dire il vero spesso con poca consapevolezza del contributo offerto dalla filosofia.

 

Affrontare queste nuove frontiere della ricerca sul problema della libertà ci porterebbe troppo lontani dall’intento di un breve articolo di carattere divulgativo.

Per questo, a chiusura del percorso, vorrei soffermarmi su una prospettiva più nota e che nel Novecento ha fatto, per così dire, “storia”. Parlo di quella sartriana. La scelta ha del resto anche una sua giustificazione interna. Nella filosofia di Jean-Paul Sartre (1905-1980) è infatti possibile rintracciare una formulazione del problema della libertà che si pone al di là della coppia esterno-interno presa in esame.

 

Secondo il filosofo francese, l’uomo è l’essere la cui esistenza precede l’essenza. In un tagliacarte l’essenza precede l’esistenza – prima di esistere l’artigiano ne ha concepito l’idea –, al contrario l’uomo esiste, le sue eventuali determinazioni provengono dalla sua esistenza, ma non lo definiscono a priori. Anzi, si può dire che nell’uomo ogni attributo (carattere, temperamento, ecc.) è accidente, perché nulla può scalfire la sua indeterminatezza.

 

Partendo da queste premesse – non dimentichiamo che un ragionamento analogo è svolto anche da Martin Heidegger (1917-1976) e prima da Søren Kierkegaard (1813-1855) –, non sorprende allora che per Sartre l’uomo sia un essere costitutivamente libero, condannato ad essere libero.

Proprio perché nell’uomo l’esistenza precede l’essenza, siamo abitati da un nulla, da uno scarto che ci impedisce di coincidere perfettamente con noi stessi. Ha senso parlare di necessità solo per ciò che ha un’essenza. Lì si può dire che l’agire non è libero. Ma per l’uomo questo ragionamento è fallace in virtù della premessa da cui si parte.

 

Tuttavia, l’esistenza come libertà non implica un’assenza di vincoli. Esistenza è anche sinonimo di gettatezza, di finitezza. L’uomo è da sempre gettato nel mondo; non può essere pensato se non nella sua relazione costitutiva con gli altri e con le cose. Ecco perché nell’orizzonte esistenzialista la coppia interno-esterno trova una profonda unità. Se l’esistenza precede l’essenza, i vincoli interni ed esterni vanno riletti nell’orizzonte di una progettualità che si costituisce “da” e “attraverso” relazioni a un tempo interiori ed esteriori.

 

I desideri o le passioni che delimitano interiormente la mia libertà sono anche modi in cui si dischiude a me il mondo. Non si tratta dunque solo di vincoli, ma di significati che mi mettono in relazione agli altri, che strutturano la mia esistenza, che circoscrivono e a un tempo esprimono nella relazione la mia libertà.

Allo stesso modo, le leggi, il diritto e le istituzioni non sono semplici istanze esterne che definiscono o costringono la mia libertà, ma una rete di senso che articola il mio sistema valoriale, plasma le mie aspirazioni e i miei progetti.

 

Ciò che prima abbiamo separato ritrova una possibile lettura unitaria: il vincolo è la libertà in relazione che si costituisce come io-mondo, come orizzonte in cui si danno io e mondo, l’interno e l’esterno. La libertà esiste sono attraverso un’infinità di determinazioni che contemplano l’armonia e il conflitto, l’individuo e la società, l’uomo e l’ambiente. Sono tutte queste relazioni a sostanziare la libertà come una realtà dinamica e plurale. L’esterno è interno. La libertà esterna e la libertà interna si rispecchiano l’una nell’altra.

 

 

14 aprile 2025

 








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