La politica odierna: un problema di spirito

 

Parlare di spirito è diventato anacronistico. Così come lo è parlare di etica – in una conversazione potrebbe addirittura capitare che qualcuno si azzardi a dare giudizi morali! Chi parla di patria è incompreso. Così come chi evoca le idee della coscienza popolare, delle virtuosità civili e militari. Tra i termini fondamentali della nostra cultura politica vi sono persino quelli che non solo vengono respinti, ma che subiscono una vera e propria cancellazione. Chi parla più di temi come l’unità popolare, la giustizia sociale? Chi ha della libertà una concezione diversa rispetto a quella espressa nella ormai litanica frase “la mia libertà finisce dove inizia quella degli altri”? Ma, ancora più profondamente, chi sa che esistono concezioni diverse della libertà e così di ogni altro principio politico oggi ritenuto ovvio?

 

di Pietro Mosoni

 

 

L’epoca odierna è stata definita un’epoca “post-metafisica”. Ad usare tale espressione è ilfilosofo tedesco Jürgen Habermas per descrivere il pensiero post-moderno, per intenderci, quello postumo alla guerra fredda. È il nostro modo di pensare, che rifiuta le ideologie violente, i totalitarismi, i dogmi delle grandi fedi, il quale, però, potrebbe essere generalizzante e categorico al resto. Post-metafisica significa abbandonare i pensieri forti, ritenuti a priori pensieri distruttivi, eppure siamo davvero certi che un’idea forte sia, per forza di cose, un’idea devastatrice? Se così è, allora, il nostro essere nell'epoca della post-metafisica ci comunica che oggigiorno non si può credere in nessuna idea storica, in nessuna posizione che contenga un progetto chiaro per il nostro futuro. Non si può più trovare una ragione per andare in battaglia, nessun senso in una vita etica per la comunità, nessuno spazio per uno spirito che possa essere, almeno potenzialmente, anche eroico. O non sono queste espressioni di un pensiero forte? Di una chiara, benché non dogmatica, visione del mondo? Dovremmo pensare che le grandi rivoluzioni della storia, da quella francese a quella russa, siano state realizzate con un pensiero debole e interpretativo? Dovremmo ritenere che chi combatte per un ideale possa essere esitante e non sapere quale sia l’agire giusto?

 

L’epoca post-metafisica è un’epoca di crisi. Un recente sondaggio condotto dall’Istituto demoscopico “Noto sondaggi” delinea un quadro molto eloquente dell’impatto che tale crisi ha sulla gioventù: su un campione di 1000 giovani di età tra i 16 e i 24 anni, il 93% ha dichiarato di non essere impegnato in politica. All’incirca un giovane su due, poi, si sente impotente davanti ai problemi lavorativi e ambientali. Inoltre, la stessa statistica rivela dati molto preoccupanti relativi alla salute mentale dei giovani, ma —  seppure siano temi importanti, in questo articolo mi soffermerò prettamente sulla questione politica. D’altra parte, bisogna domandarsi quali siano i connotati ricorrenti di questa situazione comunitaria e giovanile. Sicuramente rientrano l'incertezza, il disorientamento e la sfiducia. I segni di un tempo senza riferimenti, senza quella ''stabilità metafisica'' che è stata messa a repentaglio sia pure dalle degenerazioni del secolo scorso. Un tempo che non ha solo un cumulo di problemi individuabili, ma che è contrassegnato da un problema sistemico, strutturale. E in questa crisi, così generale e profonda, non è che la filosofia — a mio modo di vedere —  non abbia le sue responsabilità. Infatti, ad un quadro di insieme complesso essa dovrebbe dare risposte, o almeno proposte, tentativi per superare le sue dinamiche negative. Eppure, siamo ben lontani da questo superamento. Non possiamo neanche dire di essere sulla via giusta. Nonostante ciò, ancora oggi non sono in pochi coloro che vedono per la filosofia grandi prospettive, nuove evoluzioni. Certo, se la filosofia si limita a mettere in luce le strutture della crisi – e così ha perlopiù fatto finora – un’epoca di crisi non può che farle comodo.

 

Forse, infatti, essa può allontanarsi dall’incombere della crisi. Allargando comodamente i propri limiti può distrarsi dai pesi dell’attualità, dedicandosi a interessi storiografici, a utopie immaginarie, ad assenti analisi di settore. Ciò, tuttavia, non vale per quello che è immerso nella realtà: non vale per le vite umane che oggi devono trovare delle risposte, non vale per le istituzioni, per i sistemi, politici e valoriali, che quelle risposte devono creare.

 

Tutto questo, più banalmente, va in crisi e ben poco servirà una descrizione solo teorica dei motivi o degli sviluppi di questa crisi. Quanto occorrerebbe è l’azione e, precisamente, l’azione politica. Un’azione che però non si riduca al categorico tentativo di risolvere la crisi “facendo qualcosa”: questo sarebbe un approccio basato più sulla retorica di facili e persuasive promesse, che non su un credibile progetto politico. La politica oggi, quando fa, agisce proprio con questo sentimento pragmatico, elettoralistico ma mai, mai risolutivo. Un sentimento che, nel pusillanime interesse a ridurre l’inadeguatezza alla efficacia, opera con schemi banali e inconsistenti. I problemi dell’assetto politico diventano i problemi del governo precedente, questioni che nascono a livello globale, nelle sempre più complicate relazioni internazionali, sembra che nascano a Lampedusa; fenomeni sistemici come la povertà e la sperequazione sociale vengono costantemente rappresentati come conseguenze negative di isolate riforme, infami e traditrici, o di dimenticati vuoti normativi.

 

La politica è oggi senza ispirazioni, senza riferimenti. Essa si affida, come si suol dire, a quello che passa il convento. È così almeno nel cosiddetto “Occidente”, luogo del trionfo del post-ideologismo, il fenomeno diffuso per cui l’azione politica si svincola da un sistema di idee e si organizza in un variabile e schematico programma politico. I partiti appaiono senza radicamenti, senza idee, senza ricettività ovvero sempre più poveri di contenuti politici ed eticamente definiti. E spesso l'operato dei post-ideologisti si riduce alla cosiddetta politica amministrativa, a cui negli anni siamo stati abituati. Essa dà il suo parsimonioso spettacolo quando opera sui problemi, interessandosi però solo degli effetti, mai delle cause; tenta aggiustamenti, non realizza mai delle ristrutturazioni, di quelle che sarebbero veri e profondi cambiamenti. Convince il popolo che una legge risolverà la povertà, o la disoccupazione, che una riduzione di imposta rilancerà l’economia o che anche mantenendo una politica estera inoperante si possa far valere la sovranità dello Stato.

 

Tutto questo esemplifica una sola cosa: l’assenza di una visione del mondo. Questo è limpido e innegabile e i suoi effetti negativi, quasi si trattasse di un contagio, si riversano tutti sul popolo, su chi, cioè, viene rappresentato. Meno scontata, ma assai più insidiosa, non è questa assenza, bensì l’incapacità stessa di produrre un’idea complessiva della realtà. A questa capacità servirebbe una spiritualità ritenuta oggigiorno così inutile e fuori dal tempo che non solo ce ne disinteressiamo, ma per cui abbiamo sviluppato una vera e propria insensibilità. E questa insensibilità si appoggia sull’ovvietà, già richiamata, con cui è percepita una politica asettica e indifferente come quella di oggi. Si pensi anche solo ai termini più in voga per caratterizzare il nostro assetto politico: “democrazia”, primo fra tutti, ma anche “libertà individuale”, “libertà di parola” e così a non finire.

 

Chi si interessa della loro effettiva presenza? Chi mai nota che quasi nessuna delle decisioni politiche viene presa dal popolo? Che le stesse decisioni politiche non hanno mai un impatto strutturale? Che i rappresentanti delegati non sono veramente scelti dal popolo, ma da questi – ovvero dai sempre meno che esercitano il diritto di voto – solamente selezionati tra le varie opzioni di una lista? Qualcuno è attento a come, concretamente, si realizza la tanto sbandierata libertà individuale? Non dovrebbe essa, al di là del suo perfetto asserto formale, esistere in questo mondo, determinarsi, nel suo reale grado di libertà, secondo le condizioni materiali? E, ancora, ben pochi mi sembrano sensibilizzati su temi quali la sottoesposizione mediatica di alcune opinioni e la corrispettiva sovraesposizione di certe altre. Come se non vi fossero altri mezzi, al di fuori della censura, per controllare il pensiero e la circolazione di idee. Il contenuto di queste libertà, garantite da questa democrazia, è considerato irrilevante. Ciò che importa è la forma, la convinzione che quella democrazia e quelle libertà esistano realmente solo per il fatto che esistano come principi astratti. Come si ottiene questo risultato? Semplice, dando per scontata la sostanza. Rispondendo a domande come: “Quella in cui viviamo è veramente una democrazia?” annuendo come se si stesse trattando di qualcosa di ovvio. Si ottiene uccidendo il pensiero. O, perlomeno, rimuovendone la parte pericolosa, quella che si esercita sulla propria condizione, sul proprio lavoro, sulla propria società, sulle proprie convinzioni, sui propri valori e sui valori collettivi. Del resto, il pensiero astratto dei sistemi generali, nella sua palese innocuità, non verrà mai impedito, anzi, è spesso incoraggiato.

 

A suo tempo, Lenin sosteneva che due fossero i generali atteggiamenti filosofici: il materialismo e l’idealismo. Per il materialismo la realtà è il punto di partenza. Il pensiero si limita a inquadrare la realtà, a studiare le sue strutture, le sue leggi, le leve che permettono di imprimerle il cambiamento. Al contrario, per l’idealismo prima di tutto vi è il pensiero. Per cambiare la realtà serve, secondo gli idealisti, cambiare il modo di pensarla, rivoluzionare i valori che in essa ci orientano, le certezze indiscutibili che ci accompagnano e che costituiscono quella che oggi chiameremmo mentalità. Si può vedere come le differenze che all’epoca di Lenin erano inconciliabili, oggi sono complementari. I cambiamenti, è vero, si compiono sulla realtà, ma noi non metteremmo mai in dubbio che sulla realtà influiscono le nostre concezioni. Sappiamo, ad esempio, che se vogliamo venga approvata una nostra proposta di legge dobbiamo sì trovarci in una posizione politica forte, ma dobbiamo anche costruire intorno alla nostra campagna una certa sensibilità, un sentimento accogliente e partecipe di quella iniziativa.

 

Si osservi anche come al pensiero rivoluzionario si oppone oggi un rischio ben più minaccioso di quell’eccesso di teoresi che il vozhd’ bolscevico imputava all’idealismo. Questo rischio è il pensiero formale, la riflessione astratta, astorica, apolitica. Come dice il nome, è il pensiero che si occupa delle “forme”, vale a dire delle definizioni impersonali, dei principi rigidi. È il pensiero che non parla della realtà, ma del modo in cui essa è definita – in definizioni, curiosamente, sempre date, mai discusse. E quando queste definizioni riguardano la nostra libertà, la democraticità del mondo in cui viviamo, la sua autoreferenziale superiorità rispetto a ogni altro modello esistente, ecco, allora, gli utili strumenti per l’ideologia di una crisi, per il sistema che l’ha prodotta.

 

Ecco gli argomenti che accorrono a giustificare, come meno peggio o come necessario, le contraddizioni che attraversano l’odierno ordine. Ecco, in definitiva, il pensiero alla base di ogni politica post-ideologica e amministrativa, di ogni politica della crisi, che, dovendo rispondere alla realtà, non ha dietro una filosofia che lo sappia fare. Sarà importante prendere atto della deficienza della politica odierna, una deficienza di spirito. Solo il pensiero concreto può vivere in quest’epoca e farsi portatore del suo significato. Se riprendere coraggio è già riprendere uno spirito, occorre coraggio per tornare a parlare di politica, di etica, e di farlo con i giusti termini. Le parole costruiscono il pensiero: solo termini incisivi e fieramente anacronistici possono erigere un progetto politico solido e rivoluzionario.


 

13 marzo

 






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