Lynch e l'esistenzialism0 di John Merrick

 

The Elephant Man di David Lynch è il film che ha consacrato definitivamente il genio di Missoula come enfant prodige del cinema americano e mondiale. Con questo film l’autore smussa le asperità del body horror d’esordio mantenendo però ben chiara la sua impronta stilistica, azzerando quasi completamente la struttura postmoderna del racconto, ma conservando l’uso di soggettive impossibili, movimenti di macchina che attraversano le fessure del panno che ricopre il volto di Merrick e approdano nei luoghi angusti della fabbrica, lì dove si consuma la meccanizzazione e disumanizzazione dell’umano.

 

di Marco Palladino

 

 

Il film si apre con una sovrapposizione figurativa, tipica dell’espressionismo, memore del surrealismo di Maya Deren, tra il volto della madre di Merrick e l'elefante che le causò il parto prematuro e la morte. 

È vero, dunque, che The Elephant Man è forse il film più lineare di Lynch, insieme al magnifico A Straight Story del 1999. Entrambi tratti da una storia vera. Entrambi film su commissione. Il primo prodotto da Mel Brooks, il secondo dalla Disney. Eppure, in maniera diversa, sono dei film assolutamente lynchiani, pur non presentando l’intreccio narrativo ingarbugliato che ha contribuito a fare di Lynch il regista del mistero e del sogno.

The Elephant Man, in particolare, è tratto dall’autobiografia del dottore Frederick Treves, il quale salva John Merrick dalle grinfie di Bytes, crudele e spietato gestore di freak-shows. Ma anche il medico farà di Merrick, almeno inizialmente, un oggetto di studio, un mezzo in vista di fini esteriori, salvo poi pentirsi, quando la coscienza morale gliene renderà il conto. Lynch, con la figura di Merrick, sembra sovrapporre l’epoca vittoriana, improntata al positivismo lombrosiano, alla società senza dolore e dunque senza alterità (cfr. Byung-Chul Han), e quella americana, di marca reganiana, fondata sul mito della civiltà da esportare, della democrazia colonizzatrice. A questo strisciante positivismo Lynch risponde facendo sue, implicitamente, le tesi del Wilde di De Profundis, del Dostoevskij di Memorie dal sottosuolo. L’esistenza, questa sporgenza da ogni fattualità meramente empirica, non può essere misurata: è l'incommensurabile. Ciò che non può mai e poi mai diventare una formula algebrica, un due più due, un risultato deducibile dalla somma puramente matematica delle parti. È ciò che, alla stessa stregua, fa il neopositivismo del nostro tempo: tenta di ridurre l’infinito soggettivo che ognuno è alle sue componenti neurochimiche. La malattia mentale, la deformità, che cos'è se non uno scompenso organico e chimico? Merrick rappresenta l'assoluta controparte di questa visione. Il suo dolore è, per citare ancora Wilde, annidato in una bellezza nascosta, la bellezza dell’umanità che sente se stessa nel volto dell’altro, che sa sondare la tristezza e la sofferenza altrui come Kendal, la quale, di fronte alla deformità di Merrick, sorride e lo addita come Romeo. Kendal si dota di un vedere esistenziale. Un vedere né fisico né psicologico. Un vedere che coglie la singolarità dell'alterità, la sua unicità. In questa prospettiva, si può dire che Lynch non solo tessa un elogio dell’interiorità, della sua eccedenza rispetto ad ogni esteriorità. Più profondamente egli sembra dirci che l’interiorità si annuncia nel volto, benché deformato, benché piegato dal dolore, di ogni uomo. Seguendo Levinas, Lynch costruisce un saggio visivo sull’esteriorità, sulla sua inseparabilità dall’anima. Ogni volto, ancor di più il volto deforme di Merrick, è una traccia dell’infinito, di ciò che pone in scacco la claustrofobia della totalità. Il volto, seppur segnato vistosamente dal male fisico, è interiorità incarnata, trascendenza immanente. L’irriducibilità non è altro dalla carne, ma l’altro della carne. Ce lo suggerisce Simone Weil nelle pagine meravigliose che aprono La persona e il sacro. Ciò che abbisogna del nostro riconoscimento non è la persona, vale a dire un concetto, una rappresentazione, dell’altro. Il sacro è sì l’impersonale esigenza di bene assoluto che sgorga dal punto infinitesimale dell’anima, ma, ancor prima, è l’esistenza nuda dell’altro, il suo corpo, i suoi occhi, le sue braccia, le sue mani. Il sacro in John Merrick non è solo la sua interiorità invisibile, ma la sua interiorità incarnata, il suo corpo deformato.

 

 

Le parole dell’uomo del sottosuolo, che ci interessano per comprendere appieno la temperie filosofica di quest’opera possono essere dette anche attraverso il titolo di una canzone dei Radiohead: 2 + 2 = 5. Ossia, l’esistenza, che è un infinito, sempre irriducibile ai miei schemi, è la totalità non deducibile dallo schema, è l'imprevedibile, il de-forme in senso esistenziale. John Merrick è la protesta dell'unico, la protesta della vita che non vuole essere un numero, un voto, una definizione. (Stirner). In questo senso, l'esistenza di ciascuno, simboleggiata dal carattere eccezionale della condizione di Merrick, è costitutivamente queer. L’esistenza non è qualcosa che si è e basta, ma è qualcosa che si fa, qualcosa che si auto-genera attraverso la serietà della scelta. Il nostro essere non è dato, ma un darsi continuo, un darsi per il tramite della scelta.

Il finale dell’opera, uno dei più felici non solo della filmografia di Lynch, ma, probabilmente, dell’intera storia del cinema, è poesia visiva. Merrick a teatro, finalmente, si è sentito amato. Amato da Kendal, amato dal dottore, in un certo senso amato dai presenti. La cattedrale, meticolosamente ricostruita in ogni suo pezzo, può dirsi terminata. L’ultimo tassello, un tassello invisibile, ma più importante di quelli visibili, è rimesso al suo posto. Questo tassello è l’amore. La sofferenza ci dà accesso al sapere, alla saggezza, ma ancor di più l’amore. Il dolore senza amore è cieco, l’amore che non passa attraverso la chiara cognizione del dolore altrui è vuoto. 

John Merrick ci dice che si può nascere due volte. O meglio, che si nasce, davvero, solo negli occhi di chi amiamo, solo negli occhi di chi ci ama. L'amore ci genera, fattualmente e spiritualmente. L'amore è l’unico organo capace di farci vedere la sostanza mistica della realtà. Solo l’amore ci fa vedere l’altro. Solo l’amore ci fa vedere l’essenza stessa dell’universo, il suo destino. La poesia di Tennyson, recitata dalla madre, racchiusa nel globo al di là dello spazio e del tempo, può essere pronunciata con veracità solo da chi ama, benché tutto il dolore di cui l'esistenza è intrisa. Solo chi ama, passando attraverso la cruna d'ago del dolore, attraverso la porta stretta lastricata di sofferenze e umiliazioni, può vedere l'impermanenza – la nuvola che fugge, il vento che soffia, il cuore che batte – e l'altro da ogni impermanenza, l'eternità, il senza-morte. La madre, l'origine da cui si proviene, è in un'origine più remota. Un'origine immortale: lo spirito, la coscienza pura, termine che Lynch desume da Maharishi Yogi. Quell'universo trapunto di stelle che si muove sulle note di una musica ultraterrena, e che accoglie la rivelazione della madre, non è altro dallo spirito che Merrick esala. Lo spirito di Merrick, lo spirito di ognuno, se si rapporta con liceità e purezza all'esistenza, è capace di trascenderla, di dire, con fermezza, che niente muore.

 

19 marzo 2025

 









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