Religioni dappertutto: propaganda, simboli e molto altro. Intervista a Carlo Nardella

 

Nel mondo contemporaneo i riferimenti religiosi sono sempre più utilizzati nella scena pubblica per attirare l'attenzione. E la strategia funziona: non a caso, infatti, sono spesso molto accese le polemiche a riguardo. Dai comizi politici alle manifestazioni nelle piazze, le sfilate di moda e le nuove tecnologie, tutto sembra trarre vantaggio da un certo tipo di simbolismo che costituisce la realtà in maniera più o meno evidente. Ne parla il professore di Sociologia dei processi culturali nel Dipartimento di Scienze sociali e politiche dell’Università degli Studi di Milano Carlo Nardella nel suo libro Religioni dappertutto (Carocci, 2024), in cui emerge, tramite una serie di ricerche approfondite a livello internazionale, come «le religioni tentano dal loro canto di percorrere, con qualche rischio, vie finora inedite».

 

Intervista a cura di Sara Ricci

 

 

SR: Il fulcro della sua ricerca si concentra su un tema di cui lei ha già trattato in precedenza non troppo tempo fa, ovvero un modello interpretativo dell’uso dei simboli nella pubblicità degli ultimi settant’anni denominato ‘’migrazione dei simboli’’. Di che si tratta?

 

CN: In un libro intitolato La migrazione dei simboli, nel quale facevo luce sull’intreccio tra marketing e religione, individuando la presenza di piani di convergenza, mi domandavo se e come la pubblicità commerciale usi simboli religiosi. A livello storico avevo verificato che questo fenomeno risaliva indietro nel tempo ma anche che dalla metà degli anni Cinquanta del secolo scorso il contesto era cambiato sia a livello di consumo sia nello stile comunicativo, e a partire da quel decennio fino ai giorni nostri avevo condotto il mio studio.

 

Dall’analisi del contenuto di un ampio campione di pubblicità a stampa apparse in Italia negli ultimi settant’anni emergevano due tendenze generali in atto. La prima: la frequenza con cui i simboli religiosi sono usati per promuovere beni e servizi di consumo è tendenzialmente crescente e incline ad aumentare nel lungo periodo. La seconda tendenza riguarda l’uso di questa simbologia in connessione a una serie di valori culturali presenti nelle pubblicità analizzate, tra cui libertà, saggezza, praticità, prestigio e vanità. Si tratta di un mix eterogeneo di valori che ho interpretato come indicatore del fatto che la religione è diventata una risorsa comunicativa cui i pubblicitari attingono, con sempre minori riserve, per rispondere ai più diversi scopi commerciali.

 

Per sostenere una linea sociologica di interpretazione di queste tendenze avevo avanzato un modello teorico denominato “migrazione dei simboli”. Il modello proponeva l’idea di un trasferimento, tuttora in corso, dei simboli dal campo religioso – in cui sono storicamente prodotti e mantenuti – a un nuovo campo sociale, quello pubblicitario, dove finiscono per oggettivarsi prendendo a vivere di vita propria in questa loro nuova dimensione.

 

Solo per fare due esempi di simboli (ex)religiosi che vivono ormai compiutamente come cittadini nella sfera della pubblicità, si pensi al logo di Apple, rappresentato dalla celebre mela morsicata, e al logo di Nokia, contenente un riferimento alla Creazione di Adamo dipinta da Michelangelo nella Cappella Sistina. Si può dire che la migrazione di questi simboli, ormai autonomi, si è conclusa non essendo più necessario che il consumatore, per decifrarli, faccia riferimento a un sistema di conoscenza religioso.

 

SR: Negli anni Cinquanta, lei ci spiega, l’industria pubblicitaria cambia direzione e rompe con il passato per ricercare una nuova via operativa dei mezzi pubblicitari. Sappiamo che in questo decennio accade qualcosa di nuovo dal punto di vista dei simboli religiosi usati come mezzo per un fine promozionale: tutto quello che prima era considerato un criterio valido, adesso si sfalda, cambia, o addirittura si sovverte. Quali sono i motivi di questo cambiamento epocale?

 

CN: Il modello della migrazione dei simboli rendeva conto di un fenomeno, tutt’oggi in pieno sviluppo, la cui origine era collocata negli anni del boom economico. È questo un periodo di grandi mutamenti non solo per la vita nazionale del nostro paese, con l’inizio della ricostruzione postbellica e l’espansione dei consumi di massa, ma anche per l’industria pubblicitaria italiana, che rompe definitivamente con il passato. Questa rottura passa per un verso dall’affermarsi di due “nuovi media” dell’epoca, i periodici illustrati e la televisione, come mezzi pubblicitari più ricercati dalle aziende; per altro verso dal diffondersi tra i professionisti della pubblicità italiana di tecniche e metodi di lavoro già in uso nelle agenzie nordamericane, che dopo la fine della guerra avevano aperto nuove sedi oltreoceano.

 

Da quel momento in poi per l’industria pubblicitaria italiana si apre una condizione nuova che crea una discontinuità rispetto a tutto quello che l’aveva preceduta. Questo confermava la bontà delle scelte operative e metodologiche che avevo fin lì compiute, soprattutto quella di condurre l’analisi in modo ordinato concentrandomi su una fase alla volta del fenomeno, ma per me non era sufficiente e avevo la certezza di dover procedere oltre ponendomi nuovi interrogativi. Una delle sfide più intriganti rimasta aperta era quella di verificare se l’uso pubblicitario di riferimenti religiosi avesse avuto una fase di sviluppo precedente a quella iniziata con la grande frattura degli anni Cinquanta. Per rispondere a questa domanda ho condotto una nuova ricerca di cui ho presentato alcuni risultati in un saggio intitolato “In principio era il manifesto”, recentemente apparso nel volume Religioni dappertutto.

 

SR: Che cosa ha analizzato in questa sua ultima ricerca? Ci sono dunque tracce della tradizione religiosa nei testi e nelle immagini promozionali della prima della metà del Novecento?

 

CN: In generale, la scoperta più interessante è stata che l’impiego di simboli religiosi a scopi pubblicitari non è rintracciabile solo nell’Italia che possiamo definire “moderna” ma risale ben più indietro nel tempo, sino agli albori del ventesimo secolo. A livello empirico, tale scoperta è stata possibile analizzando un campione di più di duecento manifesti pubblicitari contenenti riferimenti religiosi raccolto presso l’archivio del Museo nazione Collezione Salce, che conserva la più ampia raccolta di grafica pubblicitaria esistente in Italia.

 

SR: Tra i vari manifesti dell’epoca presi in analisi per condurre la sua indagine, è evidente come l’immagine del diavolo sia quella più utilizzata rispetto ad angeli e santi, al clero e ai richiami di narrazioni bibliche. Non solo: si nota subito la percezione positiva del principe delle tenebre, che non coincide con la sua rappresentazione contemporanea. Come mai? Cosa, allora, lo rendeva anche un simbolo positivo? Ci può fare qualche esempio pratico di manifesti con il diavolo come figura positiva e di rappresentazioni con il diavolo come figura negativa (di cui c’è continuità anche nel presente)?

 

CN: Se le pubblicità odierne rappresentano il diavolo esclusivamente nei suoi tradizionali aspetti negativi promettendo di neutralizzarlo grazie al prodotto promosso (un esempio recente è lo spot dello spray gola Neo Borocillina che sconfigge “il diavolo della tosse”), nei manifesti pubblicitari del primo Novecento questa figura veniva anche rovesciata presentandola come benevola.

 

Certo, l’uso “negativo” del diavolo che si ritrova nelle pubblicità di oggi non era assente nei manifesti da me analizzati, ma è interessante notare come tra di essi fossero più frequenti quelli che dipingono il diavolo come “amico” piuttosto che come “nemico” allo scopo di esaltare gli attributi e le qualità dei prodotti. Un esempio di rappresentazione negativa è nel manifesto del cachet Rosa, una compressa analgesica raffigurata estirpare un diavolo dalla testa di un uomo che soffre di emicrania. Un’immagine positiva invece è esemplificata dal manifesto del sapone Pasubio, in cui un diavolo buono dona il prodotto a una folla che non può più resistere a questa nuova tentazione consumistica.

 

SR: Come per la figura del diavolo, secondo la sua analisi anche i membri di ordini religiosi e del clero possono avere una duplice accezione, sia positiva che negativa. In che modo frati e monaci manifestano questa dicotomia di significato?

 

Sì, i manifesti tendevano a rovesciare il ruolo tradizionale anche di frati e monaci trasformandoli da asceti rinunciatari dei piaceri della carne a gaudenti pronti a lasciarsi andare al consumo dei prodotti pubblicizzati, quasi sempre bevande alcoliche. Un esempio di questo tipo è il manifesto per l’Aleatico di Portoferraio, nel quale un frate con guance rosse e occhi socchiusi sorride beato con in mano una bottiglia di questo vino liquoroso. D’altro canto, rappresentazioni positive di membri del clero e di ordini religiosi erano usate dai pubblicitari per esprimere visivamente la cura e la devozione al lavoro tipiche degli ordini monastici, caratteristiche che venivano abilmente trasferite sui prodotti, anche in questo caso soprattutto vini e amari, e sui rispettivi produttori.

 

SR: Nella sua ricerca ritroviamo anche i simboli che vengono usati con un’unica accezione. Tra questi, ad esempio, gli angeli, i santi e le scene bibliche. Ce ne parla riportandoci qualche esempio, magari uno tra quelli secondo lei più suggestivi?

 

Non tutti i simboli che ho trovato nei miei manifesti sono utilizzati in modo duplice: altri simboli restano vincolati a un unico uso essendo impiegati soltanto con una valenza positiva. Questi includono riferimenti visivi ad angeli, santi e scene bibliche oltre che a chiese e altri edifici religiosi, tra cui – altro risultato inatteso – ho rilevato anche moschee. L’uso positivo di questi simboli serviva a creare un’associazione fra tradizione religiosa e prodotto o servizio promosso che di quest’ultimo esaltasse la bontà, il valore, l’utilità o la vantaggiosità.

 

Gli angeli sono il principale vettore di questo tipo di associazioni, come ad esempio nel manifesto per la pasta angelica, in cui un angelo sparge dall’alto confezioni di pastina, e nel manifesto «Vesti bene, vesti lana», nel quale un angelo custode susurra lo slogan all’orecchio di un signore elegante. Un altro manifesto suggestivo è quello per la società anonima cooperativa “La Reale” di Bologna, nel quale l’immagine di un angelo che si erge a protezione di una contadina trasferisce metaforicamente su questa compagnia assicurativa la capacità di proteggere altrettanto efficacemente il raccolto contro i danni della grandine.

 

 

SR: Conclude il suo saggio scrivendo: ‘’Si potrebbe andare oltre e parlare dell’uso dei simboli religiosi nei manifesti come di una tecnica specifica mirante non tanto a convincere all’acquisto, quanto a iscrivere nell’ambiente vissuto i prodotti pubblicizzati, e con essi bisogni, desideri e persino azioni, ben prima che i prodotti fossero di fatto acquistati’’. E continua: ‘’L’adozione di questa tecnica permetteva di aggiungere al prodotto una dimensione di valore, facendo in modo che l’atto di consumo fosse già in parte compiuto nel manifesto’’. Questa modalità di fare pubblicità è ancora attuale con tutti i mezzi tecnologici moderni? E’ evidente che ancora oggi i simboli religiosi siano rimasti abbastanza centrali in molti messaggi promozionali. Cosa però, secondo lei, è cambiato radicalmente rispetto al passato?

 

CN: Provo a rispondere alla sua ultima domanda riformulandola al contrario: è rimasto qualcosa oggi di queste pubblicità appartenenti a un passato ormai lontano? Nel mio saggio noto che il manifesto è stato il mezzo attraverso il quale, nel contesto italiano ed europeo di inizio Novecento, la pubblicità ha tentato per la prima volta di influenzare gli individui incidendo direttamente sull’ambiente di segni e di immagini nel quale, con l’avvento del nuovo secolo, essi ora vivevano. In altre parole, i pubblicitari dell’epoca avevano intuito che attraverso il manifesto potevano aprire un canale di comunicazione basato su immagini e testi, per quanto semplici, in grado di fissare l’attenzione dello spettatore – un bene già allora scarso – su un solo messaggio e su un solo prodotto. Il mio studio ha dimostrato che tra queste immagini e questi testi c’erano anche quelli della tradizione religiosa.

 

Si può dunque pensare all’uso di tale simbologia nel manifesto del primo Novecento come una tecnica mirante a iscrivere particolari desideri, bisogni e persino azioni nell’ambiente vissuto ben prima che i prodotti fossero di fatto acquistati. Ed è in questo suo ruolo di ponte tra prodotto in vendita e mondo di vita dei consumatori, anticipatore dei moderni processi di marca (brand), che l’uso di simboli religiosi nell’età del manifesto mostra la sua continuità con la migrazione dei simboli che osserviamo nell’attuale sistema pubblicitario.

 

22 aprile 2025

 








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