Siamo abituati a ragionare in base a problematiche contrapposizioni che ci pongono, di volta in volta, difronte a delle scelte impossibili come quella di prediligere i bisogni dell'anima o del corpo, della ragione o del sentimento, le idee o le pulsioni carnali. In questo aut aut che caratterizza il nostro riduttivo modo di pensarci, rischiamo di perderci di vista, di lasciarci sfuggire il sinolo inscindibile di cui siamo composti. Siamo anima ma anche corpo e nella ragione è sempre implicato il sentimento.
di Giusy Bracco
In riva, una distesa di pietre m’imprigiona. Senza telo sono su di esse, a contatto con la durezza dell’esistenza. Esistono loro (chissà da quanto!) esisto io, ma portando a mente sempre il conto degli anni che scivolano sulla mia pelle come piccole gocce di mare. La pelle dorata del nuotatore bambino emana energiche vibrazioni di vita, ancora acerbe eppure aperte come domande. Chi sono io? Chi sei tu? Perché sono qui? Senza mai smettere riesce a percepire il vago sapore dell’infinito. Che cosa si ricorderà di questo giorno una volta diventato adulto? Forse la bianchezza dei sassi che, soltanto sfiorandoli con la punta del pantalone nero, rinunciano ad un po’ del loro colore come fiato sul vetro; oppure il tocco insistente del sole da sempre a metà strada fra il sensibile e l’ideale. La luce anche quando c’è, infatti, si stenta a toccarla o a prenderla con il pugno come in tenerissima età, quando appena ospite del mondo un infante tenta di avvinghiare con le sue dita fragili l’indice della madre. La poesia, nostra dolce amica, dove andrebbe collocata? Tra queste pietre o al di là dell’oceano, voglio dire molto più in là del visibile? Le idee… come sospettare della loro natura definita ripetutamente volatile e inconsistente quando, a guardare bene, esse sono legate alla materica esistenza in un groviglio indissolubile. Non dei fragili fili ma un ammasso di nodi intersecati gli uni negli altri. O come i microbi nelle acque di un fiume che, pur essendo invisibili ad occhio nudo, sono stati dimostrati esistenti dal microscopio di Antonie van Leeweunhoek.
In un dibattito assai interessante con Walter, uno dei personaggi più rilevanti dello straordinario romanzo di Robert Musil, L’uomo senza qualità, Ulrich paragona la realtà ad una scadente commedia teatrale nella quale i nostri rappresentanti politici producono noiose vicende per «la mancanza di spirito e di originalità» mettendoci così «in quello stato di apatia e sonnolenza in cui subiamo qualunque cambiamento.» Considerata così, la storia nasce dalla routine spirituale e dall’indifferenza e «la realtà nasce principalmente dal fatto che non si fa niente per le idee.» Per Ulrich, dunque, il problema che più ci riguarda è che di un avvenimento, ci interessiamo poco di quello che avviene, ma troppo della "persona alla quale", del "luogo dove" e del "tempo in cui" la cosa accade, di modo che «non lo spirito dell’avvenimento ci importa, ma la sua favola, non il rivelarsi di un nuovo contenuto della vita, ma la distribuzione di quello vecchio.» La risposta dell’amico d’infanzia, Walter, a momenti così invidioso delle infinite e potenziali capacità dell’“uomo senza qualità”, ricorda a tratti il nostro attuale sospetto nei confronti del mondo delle idee, e della filosofia che pare si occupi proprio di questa immaterialità, del sogno di donne e uomini che hanno compiuto con la mente, locomotiva di viaggi vertiginosissimi e a momenti irriproducibili. Egli, infatti, ribatte che l’essere umano, in fin dei conti, è fatto di «vile materia», di polvere e di carne, di abitudini e pregiudizi - o come direbbe Francesco Bacone di "idoli"- che non gli permettono di innalzarsi verso le cose dello spirito che può soltanto ammirare da lontano. Si può facilmente constatare che l’abitudine per quanto possa fungere da "robusto ombrello", si comporta cioè come una protezione più o meno efficace nei confronti dell’imprevisto, porta con sé quell’insofferenza che non si assopisce mai, nonostante possa dare l’impressione contraria durante soprattutto momenti di fugace spensieratezza. Una volta tornati a casa da una festa ben riuscita è inevitabile che ambigue sensazioni ci investano, in cui l’angoscia prende il posto della cravatta, legata al collo però con un nodo più stretto. Il pensiero del domani la domenica sera è avvilente proprio come trovarsi difronte ad un compito in classe il cui tema è: “Cosa ti aspetti dal futuro?” L’ottusa materia di cui siamo circondati non ha più nulla da dirci; gli oggetti, come scrive Antoine Roquentin, protagonista de La nausea di Sartre, «sono utili e niente di più» ed è per questo che comunemente non commuovono. Nella ripetizione quotidiana e irrazionale degli avvenimenti, l’idea conta ben poco tanto che se si dovesse incontrare un uomo o una donna con grandi ed urgenti questioni nel petto, si penserebbe, come suggerisce ancora una volta Musil, che «abbia qualcosa fuori posto». Le persone che si occupano di idee, bellezza e di spiritualità sono spesso tacciate di stupidità o, peggio, di superficialità proprio perché ciò che conta è l’utilità del mondo di cui facciamo parte.
Siamo vittime del dualismo ontologico compiuto dalla filosofia platonica riproposto non con meno decisione nella visione del mondo di Cartesio, secondo cui la res extensa andrebbe considerata una dimensione diversa e separata dalla res cogitans. Il corpo esteso è tutt’altra cosa rispetto all’anima, ciò di cui l’uomo è dotato a differenza degli animali e delle macchine, guidati da un mero meccanismo di istinti e di logici ingranaggi. Agiamo come se fossimo governati dal mero bisogno biologico e parliamo come se non avessimo i piedi posati per terra, incuranti delle conseguenze dell’uno e dell’altro estremo. Persino Ulrich rimprovera il generale Stumm per dare troppa importanza alle idee. Dunque, come risolvere questa dialettica tra corpo e spirito in cui la cultura occidentale è approdata e tutt’ora ci dimora, tutta presa dall’abitudine e dai luoghi comuni? Ciascuno di noi dovrebbe penetrare nel vero senso delle parole scritte da Merleau-Ponty nella Phénomenologie de la perception:
« Io sono come mi vedo, un campo intersoggettivo, non malgrado il mio corpo e la mia storia, ma perché io sono questo corpo e questa situazione storica per mezzo di essi. » (Maurice Merleau-Ponty, Phénomenologie de la perception)
Io sono, noi siamo il nostro corpo, la nostra carne che produce storia, attraverso cui il mondo assume il suo significato. L’idea risiede nelle molli carni del cervello proprio come la musica è potenzialmente presente nei tasti bianchi e neri di un pianoforte. L’immensa Sinfonia n.8 di Gustave Mahler non è tutt’altra cosa dai corni, dalle trombe e da tutti gli altri strumenti e voci che ne compongono l’articolato organico, ma essa nasce da questi, non potendone fare a meno. Noi siamo perché pensiamo ma a costo di non dimenticare tutto il resto. Allora noi siamo anche perché parliamo, amiamo, agiamo, leggiamo, mangiamo, odiamo, desideriamo, sogniamo, danziamo…
Una divisione netta tra il ‘’mondo dei corpi’’ e il ‘’mondo delle idee’’ appartiene ad un binarismo ingenuo che andrebbe superato se si vogliono capire il mondo e le vicende umane. Le domande che cercano il senso non sono meno urgenti delle imposte da pagare proprio perché riguardano noi, la nostra carnale esistenza. Una vita tutta improntata alle faccende sociali e burocratiche non avrebbe nulla di autentico, nel frattempo si lascerebbe, come direbbe Battiato, che il vero senso della vita passi ignaro. Niente più della poesia riuscirebbe ad incarnare questa emblematica verità per cui il corpo e l’anima sono un tutt’uno, il segno si fa portatore del senso attraverso una compenetrazione indivisibile. Mi sembra che questa poesia di Walt Whitman pubblicata in Song of Myself nel 1892 racchiuda perfettamente ciò che fin d’ora ho cercato di dire:
« Io credo che una foglia d’erba non valga affatto
meno della quotidiana fatica delle stelle.
E la formica è ugualmente perfetta, come un granello di sabbia,
come l’uovo di uno scricciolo,
E la piccola rana è un capolavoro pari a quelli più famosi,
E il rovo rampicante potrebbe ornare i balconi del cielo.
E la giuntura più piccola della mia mano qualsiasi meccanismo può deridere. »
E allora gli oggetti commuovono come rivela Roquentin nelle pagine del suo diario; ogni cosa porta in sé le sfumature misteriose del significato come la parola, tessuto i cui filamenti sono rivelazioni per il nostro cuore. L’anima è dunque il corpo e il corpo è l’anima, un fraintendimento clamoroso è la loro separazione.
1 giugno 2023
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