Diversi modi di concepire la disuguaglianza economica

 

Il metodo utilizzato da Branko Milanovic per scrivere le Visioni della disuguaglianza – la cui prima edizione in italiano è recentissima, pubblicata dalla casa editrice Laterza nel gennaio 2025 – prevede che gli studi sulla distribuzione del reddito non sono imparziali o puramente obiettivi. Essi dipendono dal contesto storico in cui vengono svolti, da chi li svolge e dall'irrinunciabile ‘’lente’’ di cui ciascuno di noi è il possessore, che filtra la realtà empirica (i dati). Questa lente, scrive l’autore, è costituita dalle proprie teorie di riferimento, ossia dalla narrazione all’interno della quale si è scelto di collocarsi.

 

di Giusy Bracco

 

 

Qual è la ragione per cui si è verificato un calo assai importante a proposito degli studi sulla disuguaglianza della distribuzione del reddito a partire dal 1960? E come mai negli ultimi decenni essi sono sempre più frequenti? Queste sono due delle numerose domande che spingono Milanovic, uno dei più noti esperti internazionali sul tema della disuguaglianza, a scrivere Visioni della disuguaglianza. Il testo si sforza di essere più divulgativo possibile, sebbene il tema trattato non sia affatto semplice. Nonostante l’evidente specificità degli argomenti trattati, l’autore è riuscito a rendere accessibile e appetibile un tema che spesso viene studiato dai singoli economisti, oppure, nel migliore dei casi, trattato con un tale lassismo e infondatezza nei testi di storia da ridursi in qualche frase divagante, prive di una radice empirica e/o teorica esplicativa.

 

Ma prima di giungere a trattare di tale argomento sviluppato nel capitolo 7 del libro, Milanovic ripercorre l’evoluzione della visione economica negli ultimi due secoli, a partire da alcune opere di celebri economisti che esplicitamente o implicitamente hanno affrontato il problema della distribuzione e della disuguaglianza del reddito. D’altronde, si potrebbe dire con le parole dello stesso autore che questo è lo scopo del libro. Ripercorrendo le posizioni di Quesnay, Adam Smith, David Ricardo, Karl Marx, Vilfredo Pareto, Simon Kuznets e un gruppo di economisti più recenti, Milanovic vuole dimostrare che ogni disuguaglianza è un fenomeno storico e i fattori che la determinano «variano a seconda della società e del periodo e il modo in cui viene percepita differisce in base all’ideologia di ciascuno».

 

Dunque, parlare di disuguaglianza in termini astratti o generali è impossibile perché «possiamo parlare solo di aspetti specifici di ogni disuguaglianza». Per poter compiere un simile lavoro, lo studioso ha preferito riportare esclusivamente ciò che gli economisti di riferimento hanno scritto a proposito della distribuzione del reddito, escludendo, perciò, il resto del loro pensiero economico. Questo potrebbe fare storcere il naso perché si dirà, giustamente, che ci sono alcune componenti del pensiero di un autore che influenzano, anche se in maniera indiretta, quello a cui si è interessato Milanovic, ovvero la loro concezione sulla distribuzione del reddito.

 

Di fatto, l’esperto di disuguaglianza ha ignorato, per esempio, la teoria del valore-lavoro di Marx, preferendo l’evoluzione dei salari e la caduta tendenziale del saggio di profitto - sempre affrontati da Marx - in quanto più legati al tema del libro. La teoria del valore-lavoro di Marx è importante, riconosce Milanovic, per comprendere i suoi concetti «di plusvalore, sfruttamento e alienazione», ma non è decisiva per il suo scopo, soprattutto perché egli non si occupa delle teorie normative della disuguaglianza del reddito.

 

L’approccio di Milanovic è «consapevolmente strumentale» dal momento che egli ha fatto a meno della componente etica e filosofica che caratterizza le teorie degli autori presi in considerazione nelle pagine del testo. Ciò che è stato considerato importante per il raggiungimento del suo scopo, dunque, non ha nulla a che fare con la componente normativa o similnormativa della distribuzione del reddito svolta dagli economisti succitati, ma si concentra sulle distribuzioni effettive evidenziate dall’autore, i fattori che dal suo punto di vista determinano i redditi reali dei singoli individui e delle classi sociali e l’evoluzione che seguirà a suo parere la distribuzione con il progredire della società.

 

 

Inoltre, spiega l’autore, questa decisione di eliminare una significativa componente del pensiero degli autori di riferimento rende esplicito il motivo per aver scelto proprio questi nomi e non altri: se fosse stato interessato alle teorie normative, o più semplicemente alle visioni normative della distribuzione del reddito, allora «filosofi come Platone, Aristotele, Confucio e Rousseau (e in epoca moderna Rawls, Hayek e Sen) avrebbero avuto tutto il diritto di figurare in questo libro». Eppure, aggiunge Milanovic, nessuno di loro ha descritto «la forma concreta della distribuzione del reddito fra individui e classi sociali ai loro tempi, né tantomeno formulato ipotesi sulla possibile evoluzione di tale forma» e, per tale ragione, non li ha presi in considerazione.

 

Per Milanovic – e questo specifica il motivo delle sue scelte – gli studi migliori sulla distribuzione del reddito sono quelli che mettono insieme tre elementi: narrazione, teoria ed evidenze empiriche. Tutti gli autori di riferimento, a suo dire, posseggono questi tre elementi fondamentali, anche se Quesnay, per esempio, disponeva di pochi dati.

 

La narrazione della disuguaglianza sarebbe la forma che assume la distribuzione del reddito attraverso l’interazione di forze specifiche in ognuna delle teorie economiche. I pensatori del XVIII e del XIX secolo analizzati da Milanovic modellarono le loro narrazioni intorno alla struttura di classe della società, mentre Kuznets si concentra sugli effetti della modernizzazione (l’urbanizzazione unita allo sviluppo dell’industria manifatturiera).

 

« La narrazione di un autore può essere il prodotto delle evidenze empiriche che fornisce o esserne influenzata, così come può essere condizionata dalla sua visione dei processi storici generali o da qualsiasi altra cosa, ma è indispensabile che una narrazione ci sia, se si vuole convincere altri della propria visione del mondo e non abbandonarsi al più vacuo empirismo, dove si costruiscono equazioni semplicemente in base alla disponibilità di dati »

 

Quella che Milanovic definisce un ‘’buono studio’’, quindi, non è un’analisi puramente oggettiva come si può ingenuamente credere, ma è sempre influenzata dalla lente entro la quale un osservatore filtra ed interpreta il mondo. I dati empirici da soli non servono a molto: è la congiunzione di tutte e tre le caratteristiche che fanno di uno studio un buono studio, interpretabile, criticabile e/o condivisibile.Il secondo elemento di riferimento è la teoria che serve a dare alla narrazione un’impalcatura logica più solida. Se si vuole raccontare «una storia convincente della lotta di classe, per esempio, bisogna costruire teorie delle strutture di potere relative e dei conflitti tra le classi per la quota del reddito complessivo».

 

Una teoria delle forze fondamentali che plasmano la distribuzione del reddito può essere in forma matematica, verbale o può essere una teoria economica, politica, sociologica o di altro genere. Ciò che risulta necessario è proprio il fatto che essa debba essere di sostegno alla narrazione, senza della quale quest’ultima sarebbe una credenza vacua. Infine, naturalmente, c’è bisogno di evidenze empiriche. I dati rappresentano l’attrezzatura indispensabile per convincere il lettore e per dargli la possibilità di verificare se la teoria può essere considerata valida.

 

Le visioni degli autori selezionati da Milanovic hanno una visione diversa a proposito della disuguaglianza. Si potrebbero raggruppare Quesnay, Smith, Ricardo e Marx che trattano la disuguaglianza come un fenomeno di classe; Pareto, invece, concepisce la linea di separazione fra la classe dirigente e il resto della popolazione; nella visione di Kunznets, la disuguaglianza è causata dalle differenze di reddito fra le aree rurali e aree urbane, o fra agricoltura e industria; per gli autori degli ultimi tre decenni del XX secolo, la disuguaglianza è un fenomeno marginale.

 

Eppure, anche tra i primi quattro autori la visione delle disuguaglianze di classe non è la medesima. Per l’uomo a cui va attribuita la fondazione dell’economia politica, Quesnay, esistono distinzioni legali tra le classi: alla classe dei proprietari – di cui fanno parte anche il clero, l’aristocrazia e i funzionari pubblici – spettano per legge le eccedenze. Il contesto in cui vive Quesnay, la Francia prima della rivoluzione, quando la popolazione francese era divisa per ‘’stati’’, viene ricostruito da Milanovic grazie ai dati di cui oggi disponiamo e che non potevano avere i fisiocratici, fra cui anche Quesnay.

 

Con Smith, e soprattutto con Ricardo e Marx, le differenze di classe «diventano legate interamente alla proprietà di differenti tipi di ‘’beni’’: terre, capitale e lavoro». Per cui non c’erano più distinzioni legali e formali tra classi e individui, ma nella sfera economica i beni che un individuo possedeva contavano molto. Questo tipo di disuguaglianza è definita funzionale perché le differenze di reddito dipendono dai diversi fattori di produzione. Si parte dal presupposto non del tutto corretto che gli individui ricavino tutto il loro reddito o quasi da un unico fattore di produzione e che le classi siano in ordine gerarchico. Tale assunto implicito si tradurrebbe nel considerare tutti i lavoratori più poveri di tutti i capitalisti, e tutti i capitalisti più poveri di tutti i proprietari terrieri.

 

Con Pareto si entra in un «mondo diverso»: le classi scompaiono e gli individui prendono il sopravvento. Anche se in termini puramente empirici o misurabili, la disuguaglianza nei paesi di cui Pareto aveva una conoscenza diretta (l’Italia e la Francia a cavallo del XX secolo) non era dissimile da un paese industrializzato come la Gran Bretagna, le distinzioni di classe in Italia e Francia erano probabilmente meno rilevanti ed accentuate. Un’altra ragione per l’occultamento dell’analisi di classe risiede nel fatto che per Pareto la distinzione andava fatta più largamente fra la classe dirigente e il resto della popolazione.

 

Adesso, però, è necessario rispondere alle due domande con le quali ho aperto la mia breve ricapitolazione e a cui Milanovic risponde nel capitolo 7. Cosa accade a partire dalla metà degli anni Sessanta fino al 1990, tenendo a mente che in tale periodo di tempo è avvenuto un evidente calo degli studi sulla disuguaglianza del reddito? Chiaramente è necessario fornire un po’ di contesto storico. Lo sviluppo degli studi sulla distribuzione del reddito fra le due guerre mondiali seguì le vicissitudini della politica e, in un secondo momento, quelle della scienza economica. La distruzione di edifici e vite umane durante la Grande Guerra aveva incrementato la povertà e creato nuove disuguaglianze, «eppure non aveva prodotto nessuno studio sistematico sulle distribuzioni del reddito». Addirittura – aggiunge l’autore – c’era stato un calo d’interesse nei confronti di tale tipologia di ricerca. E l’impressione degli osservatori odierni è che accadde tutto molto in fretta fra il 1918 e il 1937-1939, con una crisi dopo l’altra:

 

« l’iperinflazione fu seguita dalla depressione, la depressione da politiche nativiste, le politiche nativiste dalla guerra; c’era poco tempo per studiare a fondo tutto ciò che aveva a che fare con le nuove disuguaglianze, tranne nella Russia sovietica, dove le questioni legate alle classe sociali, e dunque alla disuguaglianza, furono studiate in modo più approfondito ed ebbero, a tempo debito, conseguenze politiche importanti e violente »

 

Una motivazione di tale oscuramento, Milanovic la trova anche fra le considerazioni keynesiane, affermando che ogni volta che si parte dal presupposto che le divisioni di classe siano fisse e non abbiano importanza, gli studi sulla distribuzione del reddito interpersonale cadono in desuetudine. E in questo non c’è niente di logico perché «la distribuzione del reddito dei fattori può essere stabile, ma ciò non impedisce che vi siano contestualmente dei cambiamenti nella distribuzione sia dei redditi da lavoro che dei redditi da capitale». Minimizzare l’importanza delle classi sociali, o affermare che le classi sociali non esistono più, ha avuto l’effetto di marginalizzare e ridurre a superfluità gli studi sulla distribuzione del reddito.

 

Questo è l’esatto atteggiamento adottato, dopo la Seconda guerra mondiale, quando la competizione fra comunismo e capitalismo spinse gli economisti – su ambo i versanti – a mettersi al servizio degli scopi politici delle ideologie dominanti. I due schieramenti condividevano l’idea che le classi, all’interno dei rispettivi sistemi, fossero una cosa del passato, che le divisioni di classe «non esistessero più e che studiare la distribuzione del reddito di fatto non avesse rilevanza». Sia gli economisti capitalisti che quelli marxisti, dunque, sostenevano che una volta create le istituzioni di fondo, non c’era motivo di preoccuparsi di una forte differenza salariale, o di considerare il problema del reddito rilevante.

 

La scomparsa degli studi su questi temi è quello che avvenne durante la Guerra Fredda, dall’una e dall’altra parte della cortina di ferro. Inoltre, c’è da aggiungere che nei paesi socialisti, i ricercatori non erano liberi di scrivere quello che pensavano, di criticare, di scambiare i loro scritti con altri studiosi e tutto questo determinò una stagnazione per questa disciplina, impossibilitata allo sviluppo. Una narrazione che potesse essere retta da un’impalcatura teorica e affiancata ai dati, dunque, non poteva crescere su un simile terreno arido.

 

Ma nell’ultimo decennio di esistenza dei regimi comunisti, ricorda Milanovic, gli studi empirici sulla distribuzione del reddito divennero più frequenti. Era diventato facile accedere ai dati, i ricercatori erano maggiormente liberi di scrivere quello che volevano e il dibattito iniziò a prendere vigore. In più «il coinvolgimento di eminenti ricercatori occidentali» diede i suoi frutti.

 

Una ragione, invece, che portò gli studi sulla distribuzione del reddito a scarseggiare in paesi capitalisti sono da individuarsi nella politica e nel finanziamento della ricerca da parte della destra. Una forte disuguaglianza di reddito favorisce politicamente quelle misure che assecondano la disuguaglianza e avvantaggiano le imprese, o che puntano a mettere in secondo piano il tema della distribuzione del reddito. Dunque, se qualche studio era presente, essi non facevano altro che assecondare la piega politica che i paesi capitalisti avevano preso.

 

Ma nei primi decenni del XXI secolo gli studi sulla disuguaglianza sono esplosi per una serie di ragioni oggettive, o esterne. Una di queste era la crisi finanziaria del 2007-2008 che portò alla luce questa disparità fra l’andamento dei redditi e quello dei consumi. «Insomma, le classi medie degli USA e in altre parti del mondo ricco si accorsero che quella che avevano scambiato per prosperità negli ultimi trent’anni era un miraggio» anche se la prosperità dei redditi più alti non era affatto un’illusione. Per l’1 per cento più ricco della popolazione le cose andarono a gonfie vele. Questa evidente disparità, unita alla rinascita dell’interesse per la distribuzione del reddito, fu ulteriormente rafforzata da studi di ottima qualità sull’argomento.

 

Da questa breve sinossi del libro di Milanovic si può cogliere l’importanza di studi di questo genere e del fatto che dovrebbero essere resi accessibili anche a coloro che non si occupano di tale materia, al fine di rendere la loro cittadinanza una partecipazione attiva e consapevole. Comprendere le cause della disuguaglianza del reddito e i suoi risultati può rendere consapevoli di alcune dinamiche economiche e politiche non sempre evidenti agli occhi di chi, poi, le subisce.

 

 14 marzo 2025

 








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